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giovedì 28 agosto 2014

Il prof. Settis a Sgarbi: «I Bronzi di Riace non sono soprammobili»

«I Bronzi di Riace non devono diventare commessi viaggiatori della cultura. La cultura non è un’impresa di traslochi, e anche quando un’opera sia trasportabile non è detto che debba essere “movimentata”. Deportare i Guerrieri come fossero soprammobili non è un progetto ma un trucco mediatico». È quanto sostiene l’autorevole storico dell’arte e saggista Salvatore Settis (professore emerito di Archeologia classica alla «Normale» di Pisa e Accademico dei Lincei) dopo l’assurda insistenza del critico Vittorio Sgarbi sul trasferimento dei Bronzi di Riace a Milano per l’Expo 2015. «Per di più, è vano nascondere che, se mai i Bronzi di Riace venissero trasportati all’Expo, fatalmente continuerebbero a girare tutto il mondo, in occasione di Olimpiadi, G8 ed altri eventi per cui in passato furono chiesti e negati».
«I Bronzi», afferma ancora il prof. Settis (nella foto), «sono opera delicatissima e il giudizio sulla loro intrasportabilità è stato dato e ribadito dall’Istituto centrale per il Restauro e dalla Soprintendenza: un capovolgimento di questo parere tecnico mi pare davvero molto difficile, visto che nulla di nuovo è intervenuto».
Il prof. Settis poi aggiunge: «I Bronzi sono il “pezzo forte” del Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria (che nei progetti del ministro Dario Franceschini è tra i musei di importanza nazionale), un Museo assai sfortunato perché da anni chiuso o semichiuso, ma ricchissimo di materiali straordinari. I Bronzi di Riace, che dalla riapertura del museo stanno attirando un numero crescente di turisti, dovrebbero (anziché viaggiare qua e là) innescare un processo virtuoso di ripensamento delle strategie espositive e attrattive di quel Museo: aprirlo nella sua interezza, renderlo più interessante per tutti, contribuire alla vita culturale della Calabria. Dio sa quanto una città come Reggio ne avrebbe bisogno».

lunedì 25 agosto 2014

Camigliatello, la Cultura è di casa nel cuore della Sila

Per il quinto anno consecutivo (da oggi, fino al 31 agosto), Camigliatello Silano ospita «La Settimana della Cultura Calabrese», organizzata dall’Universitas Vivariensis di Cosenza, col patrocinio del Comune di Spezzano della Sila. Il tema conduttore dell’edizione 2014 sarà il dialetto. Un tributo alla memoria del grande poeta dialettale Michele De Marco, meglio noto sotto il nome di «Ciardullo». Al vernacolo calabrese verranno dedicati, oltre alla presentazione di libri e alla proiezione di filmati, anche incontri con poeti, scrittori, giornalisti, musicisti e cantautori.
«La Settimana della Cultura Calabrese», dunque, si conferma come luogo del ricordo di personaggi e avvenimenti, particolarmente degni di attenzione, sia da parte del giornalismo che del mondo letterario. Nella giornata inaugurale si parlerà di Fausto Gullo, il «ministro dei contadini», di Girolamo De Rada, il vate della letteratura albanese (nel bicentenario della nascita), del poeta Franco Costabile, del senatore Mario Giuseppe Militemi e del 550° anniversario di San Francesco di Paola e della «miracolosa sua traversata»  nello Stretto di Messina.
Tredici le mostre in programma. Una è dedicata al settimanale umoristico «Ohè!», diretto da Ciardullo (le cui pubblicazioni, purtroppo, durarono soltanto un anno: dal 1924 al ‘25). Un’altra riguarda l’attività politica dell’avvocato e politico Fausto Gullo. Ma va segnalata anche la mostra «Segni del sacro in Calabria: tra pini e vette, la statua del Redentore del Montalto sull’Aspromonte e il monumento al Cristo a Montescuro».
Numerose, anche le iniziative collaterali, come il Torneo nazionale «do’ Strummulu», giunto ormai alla sua quarta edizione.
Domenica 31 agosto, poi, la giornata conclusiva con l’assegnazione del «Premio Cassiodoro 2014». Col tema di quest’anno («Insieme... e di più») fra l’altro si è voluto sottolineare il valore dello stare insieme.
«Camigliatello Silano», insomma - come sottolinea in una nota-stampa l’avv. Tiziano Gigli, sindaco di Spezzano della Sila - «diventa, per una settimana all’anno, Capitale della Cultura Calabrese. Una scommessa vinta, grazie all’impegno e alla passione di quanti si spendono (gratuitamente) per questa iniziativa; una “7 giorni” silana che va maggiormente sostenuta e valorizzata».

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lunedì 18 agosto 2014

Palmi, il 31 agosto la Varia festeggia il riconoscimento Unesco

La Varia di Palmi riaccende i motori, a distanza di appena un anno dalla sua ultima edizione, per celebrare in grande stile il riconoscimento attribuito dall’Unesco, come patrimonio immateriale dell’umanità. Lo straordinario evento è in programma per il 31 agosto, anche la macchina organizzativa ha già aperto i battenti da sabato mattina. In piazza Cavour è stata infatti inaugurata una grande mostra video-fotografica sul rapporto uomo-natura e sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, che include pure la Sila (recentemente annoverata nell’elenco uomo-biosfera dell’Unesco) e il «Codex Purpureus Rossanensis», conservato nel Museo Diocesano d'Arte Sacra di Rossano, in provincia di Cosenza. «L’obiettivo», come sostiene Paola Nardi, responsabile del progetto Unesco, «è quello di dare grande visibilità al patrimonio culturale per far prendere coscienza della sua importanza e favorire il dialogo tra le comunità culturali, per fare della cultura e del turismo sostenibile il vero futuro della Calabria».

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sabato 16 agosto 2014

Scilla in passerella, conclusa con successo l'edizione 2014

«Un faro mentale che ha ricordato - in ogni momento della navigazione - il punto di partenza, usando la passerella dell’imbarcazione come ponte. Un ponte che ha deciso di sostare in tutte le contraddizioni e le potenzialità della Calabria»

Da piazza San Rocco, ancora, per superare l’arroccamento. E affrontare il rischio della parola in uno spazio pubblico. Per ricominciare, insieme, a porsi delle domande. «C’è una società che ha presentato alla Regione Calabria un progetto per realizzare un porto turistico a Scilla. Cinque anni fa. È da cinque anni che la commissione regionale deve pronunciarsi. È mai possibile?», ha esordito così il commissario prefettizio di Scilla, Aldo Aldi - intervistato dal giornalista Filippo Teramo - a «#Calabriaoltre i commissariamenti», l’appuntamento che ha concluso l’edizione 2014 di «Scilla in passerella», rassegna culturale organizzata dalla Filodrammatica Scillese con la direzione artistica di «Ossi di Seppia» e «Sabbiarossa Edizioni». La differenziata da settembre, Chianalea isola pedonale entro ottobre, con parcheggi assegnati nelle vicinanze ai residenti e telecamere per segnalare i contravventori;  la questione dei fuochi della festa patronale risolta, autorizzando il trionfino ma non gli spari verso l’alto...
L’incantesimo di «Scilla in Passerella», insomma, si è ripetuto ancora, dimostrando come sia possibile creare spazi di libertà semplicemente dialogando. E mettendosi in gioco. Non è stata una passerella di moda, quella declinata negli otto appuntamenti, dal 5 al 14 agosto, che hanno visto ventisette ospiti (tra scrittori, magistrati, giornalisti e protagonisti della politica) dibattere ed esporsi su alcuni dei temi più scottanti dell’attualità, ma - vista la partecipazione e i numerosi consensi ottenuti - la Rassegna intende diventarlo. Ripartendo dalla navigazione sulla passerella del pescespada: il tentativo di superare la sindrome dell’arroccamento, della chiusura in se stessi, per riprendere il mare, ricominciando a navigare, come gli antichi pescatori ma andando oltre le rotte e le chiacchiere consuete. Di qui, dunque, #Calabriaoltre. Non solo un hashtag, ma un faro mentale che ha ricordato - in ogni momento della navigazione - il punto di partenza, usando la passerella dell’imbarcazione come ponte. Un ponte che ha deciso di sostare in tutte le contraddizioni e le potenzialità della Calabria. A partire da «#Calabriaoltre la passerella» (l’anteprima del 5 agosto, al ristorante Bleu de Toi) in cui l’equipaggio, accompagnato dalle note della soprano Eleonora Pisano, si è presentato su una pedana sul mare che è anche una piattaforma per fare rete in una regione che vive di reciproche diffidenze. Diffidenze ricordate dal giudice Nicola Gratteri in piazza San Rocco, il 7 agosto, durante «#Calabriaoltre i tribunali», quando - incalzato dalla giornalista e scrittrice Paola Bottero - ha ricordato l’importanza di una «educazione alla cultura della cooperazione»  perché «anche nei paesi a più alta densità mafiosa, la mafia resta minoranza. Ma organizzata e ordinata, mentre noi viaggiamo in ordine sparso». Com’è possibile quindi che passi l’equazione Calabria-‘ndrangheta? «La colpa è anche di noi magistrati» ha precisato un inedito Nicola Gratteri. «Molte volte, forse per fretta, ci facciamo usare dalla stampa italiana. Dobbiamo stare attenti: occorre dire le cose ma non pensare che tutta la Calabria sia ’ndrangheta, altrimenti facciamo il loro gioco». La necessità di fare autocritica è stata anche al centro di «#Calabriaoltre il pregiudizio», in cui, venerdì 8 agosto con il sindaco di Rosarno Elisabetta Tripodi, il leader dei «Mattanza», Mimmo Martino, e i giornalisti Manuela Iatì, Consolato Minniti e Alessandro Russo - moderati da Josephine Condemi e Filippo Teramo - ci si è domandati come e perché lo stereotipo possa diventare una maschera calata a forza su di un popolo. «L’antico pregiudizio anticalabrese, dopo il 2005 con l’omicidio Fortugno (grazie ad una narrazione mediatica compiacente) si è trasformato in una sorta di mostro», ha sottolineato Russo, autore del saggio-inchiesta «Marchiati», «ma si può dire la verità e raccontare questa terra senza marchiare tutti come si fa con il bestiame o con una stirpe maledetta». Superare il marchio di terra da evitare, passando anche dalla riscoperta del massiccio aspromontano, sabato 9 agosto a «#Calabriaoltre l’Aspromonte», con Giuseppe Bombino, presidente Ente Parco, Cosimo Sframeli (carabiniere e scrittore), le testimonianze dei sequestrati, Rocco Lupini e Fausta Rigoli - moderati da Marisa Larosa e Filippo Teramo - e la zampogna «’a moderna» di Filippo Spanò (una magica alternanza tra suoni acuti a gravi), ha declinato la doppia narrazione di un territorio che vuole rinascere. E proprio di rinascita - che non può prescindere dal sostare nelle commistioni tra sacro e profano - si è discusso a «#Calabriaoltre gli inchini», domenica 10 agosto, con Giovanni Ladiana, padre superiore dei Gesuiti di Reggio Calabria, il quale ha ricordato che «il Vangelo non è una clava ma un’interrogazione alla coscienza». All’appuntamento - moderati da Josephine Condemi -  ha preso parte parte il pm antimafia Stefano Musolino e i giornalisti Alessio Magro, Alessandro Russo e Paola Bottero. E di interrogazioni alla coscienza con relativa autocritica di governanti e governati si è trattato a «#Calabriaoltre il declino della politica», con Giuseppe Raffa (presidente della provincia di Reggio Calabria), Nino Foti (vice coordinatore regionale FI) e i consiglieri regionali Demetrio Naccari e Mimmo Talarico, moderati da Alessandro Russo. L’equipaggio di «Scilla in Passerella» ha quindi sostato nel silenzio, nelle crepe dei non detti e dei tabù a «#Calabriaoltre la narrazione»,  mercoledì 13 agosto, in cui il pm antimafia Antonio De Bernardo, il regista Fabio Mollo e gli scrittori Paola Bottero e Mimmo Gangemi - moderati sempre da Alessandro Russo - si sono interrogati sui cortocircuiti tra realtà e rappresentazione mediatica.  «Per narrare la Calabria non si può prescindere dal raccontarne i silenzi, superandoli cercando di ascoltare», ha sottolineato Paola Bottero, autrice del romanzo «Cartavetrata». «Quando l’apparenza diventa sostanza», ha continuato la giornalista, «è facile usare la Stampa per raccontare una realtà sublimata. Ognuno di noi può passare il segno, diventare colui che lancia il personaggio e non la notizia. Noi giornalisti rischiamo di fare quanto già sperimentato dai politici: creare uno scollamento tra ciò che si vive e ciò che si racconta». 
Fare rete, ricaricando di significato parole e momenti in quanto calabresi, riattivare circuiti virtuosi rimettendosi in gioco, è stato il filo conduttore di «Scilla in Passerella», patrocinata dal Comune di Scilla e dalla Provincia di Reggio, a cui si sono affiancati l’hotel «Le Sirene», il «Lido Francesco» e il ristorante «Bleu de Toi», che hanno messo a disposizione le location, mentre hanno aiutato nella logistica, i partner, che si sono imbarcati credendo nell’orizzonte #oltre: «Scilla Eventi», «Progetto 5», «Radio Touring 104» e «Gal Basso Tirreno». Una Rete destinata ad allargarsi. Nella piena convinzione che andare «oltre» si può. E si deve.

Scilla in passerella

giovedì 14 agosto 2014

Alla scienziata calabrese Sandra Savaglio il Premio Casato Prime Donne 2014

Alla scienziata calabrese Sandra #Savaglio (uno dei «cervelli italiani in fuga» che in autunno ritorna in #Calabria per insegnare all'Università di Arcavacata) il Premio Casato Prime Donne 2014. Cerimonia di premiazione: il 14 settembre, a Montalcino. La giuria (presieduta da Francesca Cinelli Colombini e composta da Rosy Bindi, Anselma Dell’Olio, Anna Pesenti, Stefania Rossini, Anna Scafuri e Daniela Viglione) ha deciso di assegnare il premio all'astrofisica Sandra nativa di Marano Marchesato (CS), proponendola come esempio delle donne che scelgono di scommettere sul futuro dell’Italia e tornano per costruirlo. 
Quarantasette anni, sportiva, giramondo, innamorata del cosmo, Sandra Savaglio ha un aspetto assolutamente diverso da Margherita Hack (scomparsa lo scorso anno) ma condivide con lei la grinta e la capacità di comunicare.  Nel 2004, il «Time» dedicò a Sandra Savaglio la copertina e un titolo emblematico «How Europe  lost its science stars». 
Servizio di Marzia Morganti Tempestini su http://laltracalabria1.wordpress.com - http://laltracalabria.tumblr.com

mercoledì 14 maggio 2014

Umbriatico e le «Ombre Templari»

Giuseppe Pisano (docente di italiano alle Superiori e autore del volumetto «Ombre Templari a Umbriatico», appena dato alle stampe) ne parla con convinzione e non poco entusiamo. «Quell'antica chiesa-fortezza di Umbriatico, in provincia di Crotone», dice, «custodisce reliquie risalenti alla crocifissione di Cristo: un chiodo, una spina,  frammenti della veste, che potrebbero essere stati portati da Cavalieri Templari. Tombe di cavalieri in armi, infatti, sono state rinvenute accanto ad altre due chiese non molto distanti da quella di San Donato».
Gli storici contemporanei, fino ad oggi, a sentire il prof. Pisano, avrebbero addirittura ignorato l'esistenza di questo «tesoro nascosto». Eppure, se una notizia del genere - nel volgere di poco tempo - venisse suffragata, per così dire, anche da riscontri scientifici, di certo rimbalzerebbe di punto in bianco agli onori della cronaca mondiale, arrivando a superare di gran lunga finanche la risonanza ottenuta negli anni dalla Sacra Sindone.
L'opera - che si presenta su carta patinata, ben arricchita da illustrazioni a colori - intanto verrà ufficialmente presentata venerdì 16 maggio, nel piccolo borgo del Crotonese. 
«Questo originale lavoro di Pisano» - sostiene nella prefazione Enzo Valente, presidente della sezione di Cirò Marina dell'Accademia nazionale Templare - «ha il merito di portare alla luce tracce importanti della presenza Templare in Calabria; tracce del tutto inedite, fino ad ora ignorate dagli storici. A Giuseppe Pisano, quindi, va riconosciuto il merito di avere effettuato  minuziose ricerche presso biblioteche e archivi e di aver messo in evidenza quelle parti di testi di autori vari che rappresentano chiari riferimenti ed indizi di una presenza Templare in questo territorio».
I cavalieri Templari. Già! Se ne parla forse poco ma c'è chi assicura che la loro «presenza in Calabria è ancora  molto forte». L’interesse verso gli antichi Ordini cavallereschi e i loro misteri, anche nel territorio calabrese, a quanto pare, risulta sempre più in crescendo. Ma quale «febbre» - ci vien fatto di chiedere - spinge, ai nostri giorni, molti stimati professionisti a studiare lingue perdute, decifrare codici, inseguire indizi su antichi testi? Alla base di questi studi, emerge quasi sempre il mito forse più affascinante di tutti i tempi: il Graal.
Cosa simboleggia, dunque, questo Graal, la cui «cerca» richiama ancora oggi, finanche in Calabria, una folta schiera di amanti del mistero, di «avventurieri» dell’esoterico, di esploratori della conoscenza? Il calice dell’Ultima Cena, nel quale - secondo la leggenda più antica - Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue che sgorgò dal costato di Cristo sulla croce? O la chiave che contiene i misteri del plurimillenario potere della Chiesa sulla terra (cioè la tomba della Maddalena), come sostiene Dan Brown nel suo «Codice da Vinci»? Chissà! L’unica cosa che al momento si può affermare (con assoluta certezza) è che questi «esploratori» calabresi del Terzo millennio, appartenenti ad Accademie o a clubs service come Lions o Rotary, sono tutt’altro che esaltati, visto che si tratta di studiosi, valenti intellettuali.
Com’è noto l’origine del misterioso Graal è strettamente legata ad un altrettanto celebre mito: quello di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Ed è da qui che dovremmo partire, per una sorta di viaggio nel tempo, tra racconto e indagine filologica, per cercare di capire di più, per ottenere qualche risposta ai tanti interrogativi, ma il discorso andrebbe certamente per le lunghe.
«A livello letterale», sostiene un grande esperto come Franco Cardini, «la cerca del Graal è solo una bella avventura cavalleresca; ma a livello allegorico essa è il racconto del processo iniziatico che conduce alla conquista della sapienza, cioè alla liberazione dalla prigione delle apparenze».
Diventa più chiaro, a questo punto, il senso profondo che motiva gli «esploratori» di oggi: il bisogno di una ricerca materiale, sì, ma che allo stesso tempo sia anche un percorso introspettivo. Dicono le tradizioni che per trovare il Graal (ma anche altri oggetti «dotati» di un potere analogo) bisogna dimostrare di esserne degni, salvo poi il fatto che non lo si è mai abbastanza. L’obiettivo perciò non è tanto il Graal, quanto trovare se stessi. E non è poco. Anzi. 
Vincenzo Pitaro

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sabato 10 maggio 2014

Milano rende omaggio al grande Mimmo Rotella

«Mimmo Rotella, décollages e retro d’affiches». È questo il titolo dell’interessante retrospettiva promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Milano e curata da Germano Celant. Le prime sperimentazioni sul décollage (il manifesto lacerato, divenuto cifra stilistica di Rotella) saranno infatti al centro di una grande mostra, in programma nel capoluogo lombardo, dal 13 giugno al  31 agosto, presso gli spazi espositivi di Palazzo Reale. Attraverso 160 opere, in pratica, verrà ricostruito circa un decennio di attività (dal 1953 al 1964) del famoso artista calabrese.

Storia. Catanzaro e provincia, una fucina d'ingegni

di Aldo A. Mola

Tra le città italiane, Catanzaro spicca per la memoria che ha conservato e conserva dei suoi maggiori esponenti culturali. È la prova di orgoglio di una terra che si affermò negli studi molto prima di ottenere una sede universitaria. I suoi licei e istituti superiori, sin dal Settecento, proprio perché così lontani da Napoli, capitale intellettuale del Regno, o da Palermo, sede dell'antica gloriosa Università, già contavano su uomini di straordinaria erudizione, la cui intensità di pensiero era tanto più grande quanto più erano costretti a esercitarla in un circuito geograficamente ristretto.
Anche seminari, monasteri e curie diocesane si trasformavano in fucine d'ingegni, spesso destinati ad affermarsi ai ranghi più elevati della Chiesa.
Proprio da quell'humus di profonda cultura, negli stessi anni in cui il sacerdote Antonio Greco veniva eletto primo deputato di Catanzaro alla Camera del Regno, la nobile città calabrese espresse un filosofo che sembrò rinverdire la grande tradizione del cosentino Bernardino Telesio e di Tommaso Campanella. Ci riferiamo al filosofo Francesco Fiorentino, al quale sono dedicate una via e la grande piazza non lontana dall'ombrosa villa Comunale, quasi un salotto all'aperto.
Nato a Sambiase (Lamezia Terme, CZ) nel 1834, Fiorentino si formò alla scuola del celebre Pasquale Galluppi e del francese Victor Cousin, che adattò il pensiero di Hegel, campione dell'idealismo tedesco, alla tradizione filosofica francese,  meno astratta e più attenta ai problemi della storia e della società politica. Profondo cultore dei classici, ma anche dei contemporanei che conosceva nelle lingue originali, Francesco Fiorentino si entusiasmò da giovane per Vincenzo Gioberti, il teologo torinese che conciliava tradizione cattolica e spiriti liberali, sia sul piano teorico-filosofico sia su quello pratico, tanto da essere mandato in esilio perché sospettato di cospirazione contro l'assolutismo. Fiorentino intraprese anche studi sistematici del pensiero medioevale, con particolare attenzione per i mistici, a cominciare da San Bonaventura, maggiore esponente della tradizione filosofica francescana. Ad attrarre Fiorentino su sponde diverse fu la lotta per l'unificazione nazionale, che lo spinse a riflettere sugli ostacoli che la frenavano.
Come il conterraneo Francesco De Luca e molti altri democratici meridionali, egli si gettò allora a esaltare la figura di Giordano Bruno, arso vivo come eretico nel 1600, in realtà perché considerato pericoloso per il potere temporale dei papi. Balzando da un secolo all'altro negli studi, Fiorentino passò poi dai pensatori greci come Platone e Aristotele – ai quali dedicò un saggio nel 1864 – ai grandi filosofi tedeschi di fine Settecento, a cominciare da Kant, ch'egli fece conoscere in Italia, traducendone alcune opere. Nel 1880, Francesco Fiorentino pubblicò un manuale, «Elementi di filosofia», presto adottato nella maggior parte dei licei e delle università del regno.
Trent'anni dopo, e benché egli fosse morto da quasi un quarto di secolo (si spense infatti a Napoli nel 1884), quella stessa opera venne ripubblicata da Giovanni Gentile, che ne fece a lungo un vero e proprio classico per generazioni di studiosi.
Francesco Fiorentino si occupò di filosofi dei secoli più diversi, ognuno dei quali presupponeva approfondimenti che da solo egli non potè portare al limite della perfezione, tanto da essere giudicato dispersivo, se non proprio disordinato.
Egli però non voleva affatto essere lo specialista di un periodo o di un filosofo piuttosto che di altri. Sapeva che per l'Italia, dopo l'Unità, il vero problema era di riprendere contatto con il pensiero universale, senza censure e senza limitazioni. Non si trattava di formare un piccolo nucleo di addetti ai lavori, un cenacolo di specialisti: era urgente voltare pagina in generale, facendo capire ai giovani quanto fosse vasto il patrimonio intellettuale accumulato nei secoli, far percepire che, al di là degli steccati tradizionali, v'erano anche le filosofie e le religioni extraeuropee, la sapienza presocratica, le «civiltà orientali».
Ancora nel 1924 - quarant'anni dopo la morte del suo autore - il «Manuale di storia della filosofia ad uso dei licei», di Francesco Fiorentino, adattato nel 1911 dalla figlia Luisa, venne rimesso a nuovo da Armando Carlini e, in tale veste, rimase in uso sin dopo la seconda guerra mondiale. Insomma, il filosofo catanzarese non fu un genio originale, non ideò alcun sistema personale e non pretese di creare nulla di veramente nuovo. Tuttavia egli ebbe un merito anche maggiore: per quasi cento anni offrì ai giovani un quadro sintetico, chiaro, equilibrato e onesto dei diversi pensatori o sistemi susseguitisi nel tempo.
Da questo punto di vista, Fiorentino non fu troppo diverso da uno dei politici di maggiore spicco del Catanzarese, l'avvocato Bruno Chimirri (Serra San Bruno 1842 - Amato 1917), che si affermò quale economista e dedicò le sue energie a grandi opere di bonifica non solo nel Mezzogiorno ma anche nell'Agro Pontino. Asceso a ministro dell'Agricoltura con Giovanni Giolitti, anche Chimirri non inseguì l'affermazione di progetti personali, di sogni individuali, puntò a mettere a frutto le cognizioni accumulate in decenni di buona amministrazione per «portare a casa» gli accordi più vantaggiosi, soprattutto con la Germania e l'Austria che taluni suoi contemporanei consideravano «nemico storico» dell'Italia in seguito alle guerre risorgimentali.
Con severo senso dei bisogni più urgenti del Paese, Chimirri si premurò di combattere la povertà e spianare la via al benessere. In questa linea nel 1906 fu lui a varare la «legge per la Calabria», che fu, con quella per la Basilicata, voluta dallo stesso presidente del Consiglio, il bresciano Giuseppe Zanardelli, il primo provvedimento organico dello Stato a favore di una regione del Mezzogiorno.
Aldo A. Mola

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Il bergamotto e le sue grandi virtù medicinali

di Vincenzo Pitaro

L’olio essenziale del bergamotto? È conosciuto da tempo per le sue proprietà fortemente antisettiche, rinfrescanti, rasserenanti e stimolanti per le funzioni cerebrali. Pensate un po’ quante straordinarie virtù possiede: elimina le tensioni da stress, gli stati di ansia, calma i nervi, favorisce la fiducia in se stessi. L’aromaterapia, di concerto con la fitoterapia, assieme ad altre branche della Medicina,  perdipiù lo annovera tra i suoi rimedi più efficaci anche nella cura di molti altri disturbi, tra cui l’artrosi,le malattie della pelle, la bronchite, i dolori reumatici, e via dicendo. E che dire del settore della cosmesi e dell'industria profumiera?
Questo preziosissimo olio essenziale, esclusivamente calabrese, fresco e dalla fragranza agrumata (estratto, per spremitura a freddo, dalla scorza dell’agrume) non solo costituisce la cosiddetta «nota di testa» - la base cioè più importante - per la realizzazione di tutti quei profumi di qualità che si producono nel mondo - quelli, per intenderci, rigorosamente non sintetici - ma viene utilizzato anche per impieghi diversi nella fitocosmesi.
«Una grazia di Dio», insomma, come farebbe dire oggigiorno, orgogliosamente, lo scrittore Francesco Perri ad uno dei suoi principali protagonisti (Gèsu), nel fortunato romanzo «Emigranti», edito dalla Lerici nel lontano 1928.
Il bergamotto (nome scientifico: Citrus Bergamia) è infatti un bene che viene dalla natura e che ci offre un ampio ventaglio di applicazioni. La sua zona di produzione, come si sa, riguarda soltanto un determinato lembo del Reggino. Un vero e proprio regalo che il Padreterno ha voluto concedere in esclusiva a quella sottile striscia costiera della Calabria, che si estende - per un centinaio di chilometri - tra Villa San Giovanni e Gioiosa Jonica, a cavallo tra lo Ionio e il Tirreno. È nelle piantagioni di quella Riviera che, agli incipienti tepori primaverili di ogni anno, le gemme tendono a schiudersi per la prima fioritura, liberando nell’aria un profumo intenso e penetrante. Poi, piano piano, i bergamotti crescono in tutta la loro bellezza. E a quel punto saranno loro a fare il regalo più bello. All’industria profumiera, e non solo. Dal frutto, è proprio il caso di dirlo, non si butta via niente. Anzi. Dalle attività produttive agroalimentare, come se il tutto non bastasse, arrivano sulle nostre tavole finanche squisiti liquori, elisir, canditi, confetture, gelati e ogni altro genere di dolciumi.
La notizia che tuttavia, recentissimamente, ha fatto sì che il bergamotto tornasse - per così dire - agli onori della ribalta internazionale, è arrivata ancora una volta dal fronte medico-scientifico, dalla Ricerca. Una tessera in più, finora sconosciuta, dunque, da aggiungere al già noto mosaico delle sue elevate proprietà terapeutiche.
A distanza di alcuni mesi dallo studio condotto nell’Università di Arcavacata, sotto la direzione del prof. Vincenzo Mollace (ricerca ch'era servita ad evidenziare i benefici effetti di alcune molecole contenute nell'agrume) un team di ricercatori dell’Università Magna Græcia di Catanzaro ha portato a termine una nuova interessante ricerca. Dallo studio (pubblicato dal «Journal of Functional Foods», una delle testate giornalistiche più autorevoli e prestigiose nel campo della ricerca medico-scientifica internazionale)emerge come «un gruppo di enzimi, noti con la sigla Hmgf (idrossi flavononi glutaril metile), possono contrastare l’azione dannosa di alcune proteine ritenute essere causa principale di malattie cardiache».
Le molecole contenute nel bergamotto, in pratica, secondo quanto emerso da questo studio catanzarese, «possono avere effetti simili a quelli delle statine nel controllare il colesterolo Ldl», senza far registrare nei pazienti quegli effetti collaterali tipici dei noti farmaci a tutt'oggi in commercio.
«I test condotti per confrontare gli effetti delle statine e degli enzimi Hmgf sul colesterolo», sostiene altresì l'équipe di ricercatori dell'Università Magna Græcia di Catanzaro, «in effetti, hanno dimostrato che il bergamotto ha funzionato altrettanto bene». «Il colesterolo alto», aggiungono gli stessi scienziati, «è un problema di salute comune per tutti noi e spesso le statine sono prescritte per contribuire a trattare la condizione. Pertanto, un supplemento giornaliero di estratto del frutto di bergamotto potrebbe essere molto efficace per il trattamento del colesterolo alto».
Vincenzo Pitaro
© Gazzetta del Sud, pag. Cultura e Spettacoli in Calabria, di Giovedì 8 Maggio 2014 «Il bergamotto arma segreta contro il colesterolo» - Archivio: www.gazzettadelsud.it - www.laltracalabria.it

domenica 13 aprile 2014

Cultura ☆ I secolari riti della Settimana Santa in Calabria

Tra storia e tradizione, il fascino dei riti arcaici che precedono la Pasqua. Così si vive la Settimana Santa in Calabria. Tutte le rappresentazioni religiose e pagane che hanno conservato un forte legame con il passato. Dalla «Giudaica» di Laino Borgo (CS) alla «Naca» di Catanzaro, dai «Flagellanti» di Verbicaro ai «Vattienti» di Nocera Terinese. Servizio del giornalista e scrittore Vincenzo Pitaro, oggi sul quotidiano Gazzetta del Sud. Per leggerlo, entra nell'account Google+ de L'altra Calabria

venerdì 11 aprile 2014

Saverio Strati, un grande scrittore con la Calabria nel cuore

La Calabria piange Saverio Strati. Scrittore tra i più impegnati nella problematica socio-antropologica e culturale della regione, (Premio Campiello 1977), era nato a Sant'Agata del Bianco, in provincia di Reggio, nel 1924. Avrebbe compiuto 90 anni il prossimo 16 agosto.
Nel 1952 si trasferì a Scandicci, alle porte di Firenze, dove nacquero i suoi primi racconti che, di volta in volta, trovò modo di pubblicare su due prestigiose testate letterarie, «Il Ponte» e «Nuovi Argomenti». Quattro anni dopo, nel 1956, vide la luce, presso Mondadori, il suo primo romanzo («La Marchesina») che gli aprì le porte di una brillante carriera.
«È stato il simbolo di una Calabria libera», una Calabria desiderosa di riscatto, hanno dichiarato molti esponenti della Cultura italiana, appena appresa la notizia della sua dipartita. Il suo esempio e le sue opere resteranno un patrimonio per tutti. (vp)

giovedì 10 aprile 2014

Libri ☆ Catanzaro e il suo tentativo di rivolta (negli anni '50) per il capoluogo

di Vincenzo Pitaro

I moti di protesta scoppiati in Calabria per l’assegnazione del titolo di Capoluogo, come tutti sappiamo, risalgono all’estate del 1970. Fu nel mese di luglio di quell’anno, che in occasione della nascita dell’ente Regione, si creò una vera e propria disputa tra Reggio e Catanzaro. Una brutta, memorabile, pagina; non c’è che dire. La città dello Stretto in quel periodo insorse, persino con l’uso di armi da fuoco e materiale esplosivo, la repressione poliziesca non si fece attendere, e la guerriglia urbana fu giocoforza, inevitabile. Una rivolta che la pubblicistica dell’epoca, consegnò alla storia come un evento piuttosto cruento: si contarono - badate bene - centinaia di feriti e persino cinque vittime. Erano i tempi dei «boia chi molla» di Ciccio Franco.
Orbene, nel mentre quei fatti oltremodo funesti sembravano ormai quasi destinati a giacere (polverosi) negli archivi, chi mai avrebbe potuto immaginare che addirittura vent’anni prima, nel gennaio del 1950, quando l’ente Regione era di là da venire (o, per meglio dire, quando ancora nessuno forse ci pensava), a Catanzaro c’erano state ben quattro giornate di rivolta per la stessa causa?
A rivelarcelo, ora, è Alessandro De Virgilio, giornalista, capo della redazione calabrese dell’AGI (Agenzia Giornalistica Italia) che, per i tipi di Rubbettino, pubblica un volume dal titolo «Le quattro giornate di Catanzaro. 25-28 gennaio 1950: la città in rivolta per il capoluogo».
«Questo puntuale lavoro di De Virgilio, che ha il privilegio della scrittura giornalistica, immaginifica e descrittiva, associato alla tenacia della ricerca storica e al rigore del trattamento delle fonti», annota Pantaleone Sergi nella prefazione, «permette di ricostruire, mediante una lettura rispettosa, che ha una prospettiva neutrale ma non neutra, uno degli episodi più importanti e e più trascurati della storiografia politica, sociale e istituzionale della Calabria. Parliamo della prima "rivolta" per il capoluogo di regione», sottolinea Sergi, «quella che matura negli anni 1948-1950, quando fu Catanzaro a scendere in piazza per rivendicare un diritto che riteneva  acquisito ormai da secoli. [...] Una fiammata subito domata dall'intervento repressivo della Celere».
Insomma, questo lavoro di Alessandro De Virgilio è un saggio-rivelazione ben fatto, che merita di essere letto e che non mancherà di suscitare l’interesse degli storici, non solo in Calabria ma in tutt’Italia. Il libro, intanto, verrà presentato oggi pomeriggio a Catanzaro. Tra i relatori, oltre al prefattore Pantaleone Sergi (per anni inviato del quotidiano «la Repubblica») Luigi La Rosa, Aldo Ventrici, Filippo Veltri, Bruno Gemelli e il presidente regionale dell’Ordine dei giornalisti, Giuseppe Soluri.
Vincenzo Pitaro
Gazzetta del Sud - pag. Arte Cultura e Spettacolo in Calabria, giovedì 10 aprile 2014

martedì 4 marzo 2014

Giangurgolo e la Calabria nella Commedia dell'Arte

di Vincenzo Pìtaro

I dizionari enciclopedici (tutti: dallo Zanichelli alla Treccani) stranamente lo ignorano. Eppure la Calabria ha nella commedia dell'arte la sua gioiosa e simpatica maschera: è Giangùrgolo.
Il nome di per sé è già tutto un programma. Etimologicamente sembra voglia dire Gianni-gola-piena, o Gianni-ingordo. Insomma è un capitano d'origine spagnola, che alla bisogna sa fare i più diversi mestieri, in perenne dissidio con la fame e l'ingordigia, sempre insaziabile di cibo. In particolare di maccheroni che sono la vivanda per cui stravede, specie quando sono ben fumanti. Al tempo stesso è un fanfarone di tre cotte, ne spara di tutti i colori; è un guascone che veste alla spagnola ed ama forbire il suo dialetto calabrese con intercalari spagnoleschi.
Giangùrgolo, come tutti gli uomini fragili, si studia di dare di sé un'immagine piuttosto fittizia che reale. Fa di tutto per apparire temerario, truculento e pieno di sé, al punto che è sempre corrivo a coprire di improperi e di minacce chiunque non indulga a prenderlo sul serio. È pronto, a parole, a dare bastonate sulle spalle, a rompere teste, a fracassare ossa ed a ridurre uomini interi in frattaglie. Salvo poi a darsela a gambe se qualcuno fa le mostre di prenderlo in parola e di abbozzare una reazione. Perché, sì, Giangùrgolo, è soprattutto pusillanime, che riesce e vuole infierire sui deboli e indifesi, e fuggire a gambe levate, o al più ingraziarseli con le sue svenevolezze, i forti ed i potenti.
Il nostro è anche un dongiovanni, o per meglio dire, ama provarsi nell'arte di sedurre le «giovin donzelle». E qui, non senza cadere nel grottesco, le sue labbra, che prima sprizzavano una profluvio di contumelie e minacce, si trasformano in fonte di sdolcinate parole d'amore per le damigelle concupite (che sono sempre più d'una, figuriamoci!). Ma non viene mai corrisposto, perché non preso sul serio; anzi quasi sempre viene canzonato dalle stesse donnette e finisce col ritirarsi scornato e con la coda fra le gambe.
Questa maschera tipica calabrese è vestita con marsina e pantaloni gialli rigati di rosso, porta un corsetto rosso, un naso sesquipedale eternamente paonazzo ed un lungo spadone che tiene legato ad una larga bandoliera, ma che non usa mai in quanto che la sua... ferocia si esprime solo a parole, senza passare mai a vie di fatto.
Porta un copricapo a cono, ornato da una lunga piuma di pavone (che la dice lunga sul carattere del personaggio) molto in voga nelle Calabrie del '700. Le origini del Giangùrgolo vengono fatte risalire alla metà del XVI secolo: calcò le scene dei teatri italiani fino a tutto il XVII; un personaggio omonimo e calabrese comparve in quel periodo sui teatri napoletani e persino veneziani.
Il luogo d'origine è a tutt'oggi controverso. C'è chi vuole che questa maschera sia sorta in Sicilia e solo in un secondo momento sia approdata in Calabria. Vale a dire dopo il 1713, allorquando, con la pace di Utrecht, in Sicilia agli Spagnoli succedette il duca Vittorio Amedeo II di Savoia.
C'è invece chi propende per una primogenitura napoletana. Di certo v'è soltanto che la maschera di Giangùrgolo è una amena parodia di quei signorotti spagnoli boriosi e tronfi.
© Vincenzo Pitaro

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(ndr) A beneficio degli studiosi che intendessero effettuare eventuali ricerche sulla maschera di Giangurgolo, presso le emeroteche o le biblioteche, sono da segnalare le seguenti pubblicazioni del giornalista Vincenzo Pitaro:
1) Vincenzo Pitaro: «È Giangurgolo la maschera calabrese» in «La Provincia di Catanzaro», nn. 5-6 1986 e, stesso anno, anche in «Calabria Letteraria» e «Parallelo 38»
2) Vincenzo Pitaro: «Giangurgolo, un “capitano” calabrese, maschera della commedia dell’arte», Gazzetta del Sud, Cultura, Paginatré, di martedì 16 Febbraio 1999
3) Vincenzo Pitaro: «Ecco Giangurgolo, maschera del ‘700», Gazzetta del Sud, pag. Cultura, Domenica 3 Febbraio 2008
4) Vincenzo Pitaro: «La Calabria nella commedia dell’arte» in Antologia di Letteratura Calabrese, 1995 #VincenzoPitaro

Antonio Pitaro, il medico di fiducia dei Bonaparte

Nella Francia dell’Ottocento, diede lustro alla Calabria e all’Italia intera. Da noi, invece, è pressoché sconosciuto. «Ma com’è possibile», si chiedono alla Sorbona di Parigi con non poco stupore «che l’Italia non abbia ancora sentito il dovere di valorizzare e far conoscere, quantomeno agli stessi conterranei, un personaggio come Antonio Pitaro?».
Eppure, Antoine Pitarò (come lo chiamano i francesi) è stato un personaggio di notevole rilievo a livello europeo che avrebbe dovuto costituire un vanto enorme per l’intera nazione.
Scienziato, accademico, docente alla Sorbona, giacobino, massone (risulta essere iscritto col grado di maestro alla Loggia «Les élèves de Minerve»), amico di Giuseppe Mazzini e medico personale della famiglia di Napoleone Bonaparte, Antonio Pitaro finanche in Calabria è finito per essere dimenticato, se non addirittura ignorato.
A Borgia (CZ), dove nacque nel 1767, gli è stata intitolata una via e un suo busto marmoreo campeggia nella villa comunale. Per il resto, niente di niente. Mai un convegno, mai una manifestazione celebrativa.
Al contrario, la città di Parigi lo ricorda con un monumento eretto in una villa cittadina ed una celebrazione che si tiene ogni anno ai primi di giugno per iniziativa del Grande Oriente di Francia. Ma quel che più contano, sono le innumerevoli citazioni nelle prestigiose enciclopedie francesi, che lo menzionano sia come protagonista della Repubblica Partenopea, che come scienziato, poeta, ecc.
Si occupò anche di fisica e di chimica. Nel «Monitore Napoletano» si parla, nel 1799, in termini elogiativi del contributo che Pitaro diede alla «Repubblica», definendolo una «validissimo chimico», inventore di una portentosa bomba incendiaria che, riprodotta in tantissimi esemplari, venne data in dotazione all’ammiraglio Caracciolo. Grazie a quell’ordigno, che scagliato da lunghe distanze mandava in frantumi le navi nemiche, i patrioti repubblicani tennero lungamente testa all’incessante cannoneggiamento della flotta inglese. Nonostante gli sforzi dei repubblicani, Napoli però cedette e Pitaro uscì dal Regno per cercare esilio in Francia. Non si sa precisamente in quali condizioni Antonio Pitaro partì da Napoli, ma egli risulta essere a Lione già nell’ottobre del 1799, come riporta una vecchia edizione dell’enciclopedia francese Larousse.
Nella città di Parigi, poi, si dedicò interamente ai suoi studi prediletti, conquistando nel contempo una meritata reputazione.
Dopo aver frequentato assiduamente la famiglia di Napoleone Bonaparte, per essere stato il medico personale della madre di quest’ultimo, Maria Letizia Ramolino, prestò servizio come archiatra a corte, facendosi ammirare dalla nobiltà e dall’intellighenzia parigine. Infine, gli fu conferita una cattedra presso la facoltà di scienze della prestigiosa Università della Sorbona. Nella capitale francese, egli ebbe modo di conoscere un altro proscritto come lui, l’ancor giovane Giuseppe Mazzini, nel momento in cui questi stava dirigendosi alla volta di Lione.
Dopo aver abitato in un primo momento in Rue Montblanc n. 24 di Parigi, si trasferì in Rue Henite Ville n. 2, dove si spense il 28 luglio del 1832, nel mentre la sua celebrità aveva valicato i confini d’Europa.
Vincenzo Pitaro
Gazzetta del Sud, pag. Cultura, Giovedì 4 Ottobre 2007
Archivio: www.gazzettadelsud.it

Antonio Pitaro

lunedì 3 marzo 2014

La "Repubblica rossa" di Caulonia

di Vito Teti

Nel complesso panorama politico che si venne a delineare nell’Italia meridionale, a seguito della caduta del fascismo, particolare importanza riveste la «rivolta» di Caulonia del 1945. La situazione socio-economica di questo grosso e popolato centro agricolo della riviera ionica, in provincia di Reggio Calabria, era caratterizzata dalla persistenza di rapporti sociali di tipo feudale; lo sfruttamento esoso, che i contadini subivano ad opera di una classe agraria assenteista e privilegiata, era all’origine di un’accentuata conflittualità tra le classi e di una serie di sollevazioni e ribellioni contadine, fin dal periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
A partire dall’ottobre 1943 a Caulonia, come in quasi tutti gli altri paesi della Calabria, vengono riaperte le sezioni del Partito Socialista, del Partito Comunista e della Camera del lavoro. Alla testa del «movimento», che aveva come obiettivo principale la distribuzione ai contadini delle terre usurpate, che costituivano i tre quarti della superficie del territorio comunale, troviamo una singolare figura di «capo-popolo», Pasquale Cavallaro. Insegnante elementare di estrazione contadina, perseguitato e confinato politico dal regime fascista, iscritto al Partito Comunista dal 1943.
Nel 1944, Cavallaro, grazie alla sua «popolarità» e all’appoggio del Partito presso il prefetto di Reggio Calabria, Priolo, riesce ad ottenere la nomina a sindaco del Comune. La reazione degli agrari non tarda ad arrivare: in breve si assiste ad una serie di gravi provocazioni, che culminano nell’arresto di Ercole Cavallaro, figlio di Pasquale, accusato di furto ai danni di un notabile, nel corso di una perquisizione per sottrarre agli agrari armi e generi alimentari nascosti. L’arresto ha come effetto una mobilitazione popolare immediata.
La notte del 5 marzo 1945 gruppi d’insorti presidiano armati Caulonia; nel giro di poche ore la rivolta si estende ai comuni vicini coinvolgendo migliaia di persone. Occasionali furono il motivo e la data della rivolta, ma essa era stata preparata da anni di mobilitazione e propaganda politica. La rivolta vera e propria dura cinque giorni, dal 5 al 9 marzo, nel corso dei quali i rivoltosi proclamano la «repubblica» ed elaborano proprie strutture difensive e di controllo (esercito popolare) e istituiscono un tribunale del popolo.
Nelle autorità si diffonde il timore che la rivolta possa estendersi ai centri vicini: viene liberato Ercole Cavallaro, magistratura e carabinieri intervengono presso gli esponenti provinciali e regionali del Partito Comunista, ingenti forze di polizia circondano Caulonia. L’uccisione, da parte del bracciante Ilario Bava, del parroco Gennaro Amato (Cavallaro verrà accusato di esserne il mandante) e alcune altre provocazioni accelerano la fine della sommossa e il disarmo dei braccianti e dei contadini. Il 15 aprile Cavallaro si dimette da sindaco; al suo posto viene nominato Eugenio Musolino, segretario del Partito Comunista della provincia di Reggio Calabria, e qualche tempo dopo l’agrario Giovan Battista Lombardi. Nonostante le promesse e le mediazioni del Pci, la repressione fu durissima. Trecentocinquantasei persone, tutti contadini e braccianti eccetto Cavallaro e i suoi due figli, dovettero rispondere dinnanzi al tribunale di Locri dell’imputazione di costituzione di bande armate, di estorsione, di violenza a privati, di usurpazione di pubblico impiego, di omicidio, ecc. Diecine di contadini furono percossi a sangue; circa ottanta persone rimarranno a lungo nelle infermerie in seguito alle violenze ricevute. Due lavoratori morirono per le torture; altri due morirono ancora giovani in seguito a colpi ricevuti.
La causa del fallimento della rivolta è da ricercarsi, come osserva Amelia Paparazzo, «nell’isolamento in cui l’esperimento di Caulonia venne a trovarsi» e nel fatto che «i quadri dirigenti provinciali del Partito non appoggiano la rivolta, ma intervengono direttamente per provocarne la fine» (1).
Cavallaro accusò successivamente, e a più riprese, di tradimento i dirigenti provinciali del Pci e di titubanza i dirigenti nazionali. La verità è che, quando scoppiò la rivolta di Caulonia (ad insaputa dei dirigenti provinciali e di quelli nazionali), i moti di piazza e l’insurrezione armata non rientravano ormai nella linea e nella strategia politica del Partito. Proprio in riferimento ai fatti di Caulonia, Palmiro Togliatti, nel discorso di chiusura al Consiglio nazionale del Pci, tenutosi a Roma l’8 aprile 1945, sottolineava che «certi compagni quando si chiedevano che cosa il Partito dovesse fare per frenare l’avanzata delle forze reazionarie non riuscivano a capire che la sola via possibile era quella di un’azione ampia, legale e disciplinata» e metteva in guardia contro le «volgari provocazioni» di quanti «fuori dal nostro partito o ai margini di esso [...] con scopo ben determinato ripetono ad ogni passo che sarebbe venuta l’ora di menar le mani».
Il fallimento della rivolta di Caulonia rappresenta, comunque, non solo una grave sconfitta politica del nascente movimento contadino e l’insuccesso dei rarissimi tentativi delle classi subalterne meridionali di creazione autonoma di proprie forme di controllo, di difesa e di egemonia politica.
A tale sconfitta è da aggiungere anche una non meno grave sconfitta culturale e ideologica. Prendendo a pretesto alcuni gravi fatti (2) che si verificarono nel corso della rivolta [...] le forze politiche reazionarie e moderate ebbero buon gioco a «criminalizzare», per dirla con una nuova e già consumata espressione, un momento fondamentale, per quanto contraddittorio e confuso, delle lotte contadine in Calabria degli anni quaranta e cinquanta. L’insurrezione armata di migliaia di contadini e braccianti, che lottavano per la terra e per l’abbattimento definitivo dei rapporti feudali nelle campagne, venne, prima, brutalmente repressa e, successivamente, esorcizzata come atto criminale di pochi «mafiosi» e delinquenti.[...]
Il «mondo nuovo» che Cavallaro avrebbe voluto costruire con la rivolta sembra avere le caratteristiche dell’«utopia contadina». E certamente, richiami millenaristici, attese e credenze messianiche, vagheggiamenti di una «Giustizia» assoluta, mitica e astorica, aspirazioni a una mitica età dell’oro e del paese della Cuccagna, tipici delle civiltà, costituiscono in parte il retroterra dell’ideologia di Cavallaro. «Un gesto grande si è osato: un gesto che... ha le dimensioni delle latitudini e il volto di un’umanità sofferente, che spezza le catene millenarie e aspira l’aere ribelle e giocondo di un’alba nuova di liberazione» (3). Un gesto che «ha voluto solamente dir basta alla nequizia dei secoli, e mostrare i denti decisi al ringhio sinistro e tenebroso del passato, nella giustizia e per la giustizia, ma di quella giustizia che contempla e concilia i diritti e i doveri di tutti, senza distinzione di razza, di grado, o paese» (4). «Il mio mondo, il mondo che io vagheggiavo» [...] doveva essere pieno di bellezza, di bontà, di vita civile per tutti, di liberazione da ogni oppressione, da ogni sfruttamento, da ogni negazione di quello che è il buon senso, di quello che è la logica umana, di quello che è la verità di tutti, e soprattutto vagheggiavo una giustizia corrispondente a tutto questo» (5). «...nel mio animo non c’era che una veduta di sole, non di tenebre, e di giustizia per tutti. Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti» (6).
Nella tradizionale visione del mondo delle classi subalterne calabresi la Giustizia e l’Ingiustizia non sono prodotti di avvenimenti e processi storici, ma hanno origini antichissime, divine, mitiche. In Cavallaro è divina «la soddisfazione di non essere mai stato pescato in fallo» (7). L’esigenza di un «mondo nuovo» e l’aspirazione ad esso sono accompagnate dalla mitizzazione della propria realtà, dall’esaltazione della propria esperienza individuale, dalla necessità psicologica e storica di porre il proprio «io» e la propria «cultura» al centro del mondo e dell’Universo. Nell’analisi politica di Cavallaro, Caulonia assume importanza fondamentale anche in relazione alle vicende della Germania e della Russia. A Caulonia sarebbe per prima scoppiata la rivoluzione socialista; nel resto d’Italia non si aspettava che il via di Cavallaro. «...tutti speravano che io dessi il via e nella stessa Roma si diceva - questo mi fu confermato da alcuni romani - “Noi aspettavamo il tuo via”. [...] Dai compagni, arrivavano da ogni luogo, c’erano fasci di lettere e in tutti la stessa cosa: “Siamo in attesa del tuo via” [...]. Si pensava che da Caulonia sarebbe partita la cosiddetta “marcia su Roma”. Proletaria, non quella fascista, e che lungo il cammino si sarebbero accodati tutti gli altri»8.
Vito Teti
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Dir. Resp:: Vincenzo Pitaro
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1) A. Paparazzo, Lotte contadine e comportamenti culturali delle classi subalterne. Il caso della rivolta di Caulonia (1945), su «Classe», giugno 1975, pp. 93-106. (Il saggio è stato ripubblicato nel libro di M. Alcaro e A. Paparazzo, Lotte contadine in Calabria (1943-1950), Lerici, 1976.
2) L’uccisione del parroco don Gennaro Amato (ad opera non di rivoltosi ma di ‘ndranghetisti che avevano interesse a stroncare sul nascere la sommossa), ecc.
3) Dall’intervista di Sharo Gambino a Pasquale Cavallaro, apparsa a puntate su Calabria Oggi nei numeri che vanno dal 4 novembre al 30 dicembre 1976. Tale intervista, assieme al dibattito ad essa seguito sulle pagine del periodico, è stata successivamente pubblicata nel volume La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? di cui sono autori Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Enzo Misefari ed Eugenio Musolino.
4) Ibid., pag. 114.
5) Ibid., pag. 13.
6) Ibid., pag. 24.
7) Ibid., pag. 12.
8) Ibid., pp. 17-18.

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domenica 2 febbraio 2014

Calabria, il ministro Bray stanzia 300mila€ per il Tempio di Kaulon

Monasterace Marina (Reggio Calabria). Una parte del muro esterno del Tempio dorico dell'antica Kaulon (III-IV secolo a.C.) è crollata in seguito alle forti mareggiate che in questi giorni stanno interessando le coste calabresi e in particolar modo il versante ionico. Nella stessa area archeologica si trova anche il più grande mosaico ellenico della Magna Grecia, venuto alla luce non molto tempo addietro in seguito ad un'accurata campagna di scavi..
Una mareggiata, nel novembre del 2013, peraltro, aveva divorato anche la duna che proteggeva gli antichi resti del parco (distanti appena 20 metri dalla battigia) dalla furia delle onde marine.
A tarda sera, intanto, il ministro Massimo Bray (Beni Culturali e Turismo) ha assicurato uno stanziamento straordinario di 300 mila euro.

venerdì 31 gennaio 2014

Calabria, scoperte nuove molecole nell'olio di oliva

Cosenza • L'olio extravergine di oliva e le sue grandi virtù antitumorali.
Da uno studio, condotto nell'Università della Calabria, emergono nuove molecole capaci di contrastare la crescita del tumore alla mammella. Si tratta - in particolare - di due sostanze antiossidanti: l’oleuropeina e l’idrossitirosolo.
La Ricerca (finanziata dall'AIRC - Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) ha visto impegnato un team di sette ricercatori, coordinati dal prof. Vincenzo Pezzi, docente Unical.