Eccezionale evento artistico-culturale presso il Museo d'Arte dell'Otto e Novecento di Rende (Palazzo Vitari).
Fino al 31 dicembre, al MAON rendese, è possibile visitare la mostra «OttoNovecento - Arte in Calabria nelle collezioni private», curata dal critico d'arte Tonino Sicoli. Si tratta di un importante appuntamento con l'Arte calabrese degli ultimi due secoli (1850-1950), che si tiene dopo cento anni dalla storica mostra di Alfonso Frangipane, del 1912. Una carrellata, in pratica, nell'Ottocento e nel Novecento con i nomi più significativi di una stagione di fermento artistico, attraverso movimenti, gruppi e tendenze: dal Romanticismo, al Realismo, dal Simbolismo al Liberty, fino al Novecento Italiano. Più di sessanta opere (tra dipinti e sculture, provenienti da collezioni private), tutte d'indiscusso valore, sono lì, in bella mostra, ad attendere il visitatore.
La Rassegna è organizzata dal Centro «Achille Capizzano», con il partenariato del Comune di Rende, il Corso di Laurea Magistrale in Storia dell'arte dell'Università della Calabria, il Conservatorio Musicale «Giacomantonio» di Cosenza, della Società Dante Alighieri, del Club Unesco «Bernardino Telesio» e con il patrocinio della Regione Calabria (direzione Beni Culturali e Paesaggistici) e della Soprintendenza regionale BSAE.
Una mostra peraltro ricca di opere inedite, che vengono presentate al pubblico per la prima volta, come ad esempio la «ritrovata» insegna della mitica Scuola di Cortale di Andrea Cefaly, istituita nel 1862.
Oltre a Cefaly, sono esposti lavori di Vincenzo Morani, Giovanbattista Santoro, Giuseppe Benassai, Rubens Santoro, Giuseppe Cosenza, Salvatore Petruolo, dei fratelli Francesco, Vincenzo e Gaetano Jerace, di Achille Talarico, Eugenio Tano, Domenico Russo, Gaele Covelli, Antonio Migliaccio, Achille Martelli, Enrico Salfi, Rocco Milanesi, Giuseppe Renda, Domenico Colao, Andrea Alfano, Francis La Monaca, Maria Grandinetti Mancuso, Michele Guerrisi, Giusepeppe Rito, Achille Capizzano e tanti altri esponenti del panorama artistico calabrese.
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Per ulteriori informazioni: info@maon.it
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lunedì 9 dicembre 2013
Rende, prestigiosa Rassegna sull'Arte in Calabria dell'Otto e Novecento
sabato 23 novembre 2013
I Bronzi di Riace e l'Expo di Milano
Reggio Calabria. «I Bronzi di Riace sono inamovibili! Chiunque voglia visitarli, venga a Reggio. La loro sede naturale è (e rimane) il Museo Nazionale, a Palazzo Piacentini».
Il Comitato per la Tutela dei celeberrimi guerrieri si oppone con un deciso NO alla proposta di trasferirli a Milano in occasione dell'Expo 2015.
Un'«idea», peraltro, ritenuta da più parti «piuttosto assurda e stravagante».
Alcuni anni addietro - per la cronaca - un inquilino di Palazzo Chigi (poi sfrattato) li voleva addirittura a L'Aquila, in occasione del G8.
Domanda legittima: ma come mai queste richieste di «trasferta» si ripetono ciclicamente, sempre (e solo) a riguardo dei Bronzi di Riace?
Possibile che a nessuno venga mai in mente, ogni tanto, di chiedere anche il Mosè di Michelangelo o il David di Donatello?
E che diamine!
domenica 10 novembre 2013
Francesco Mazzei, lo chef che a Londra ha globalizzato la ’Nduja
di Claudio Gallo
Ah la globalizzazione! Quando Thomas Friedman ci diceva che il mondo era diventato piatto, un'ininterrotta pianura di opportunità. Poi abbiamo scoperto che i cinesi, senza la rete del welfare e pagati una miseria, toglievano il lavoro ai nostri operai: una ininterrotta pianura di fregature. Ma siccome la realtà non è in bianco e nero, esiste pur sempre una limitata accezione culturale, in cui la circolazione planetaria delle idee è stata creativa. Prendiamo la storia di Francesco Mazzei, 40 anni appena compiuti, uno dei cuochi più raffinati di Londra.
Calabrese di Cerchiara Calabra , nella provincia montana di Cosenza, ha cominciato che più «local» non si può. Siccome voleva (lui e i suoi quattro fratelli) andare a scuola con i Levi’s e con le Nike, incominciò da ragazzo ad aiutare lo zio alla gelateria Barbarossa di Villapiana. Un giorno venne a mangiare il gelato un famoso cuoco locale e Francesco gli servì la sua specialità, il «Mangia e Bevi». Il cuoco intuì il talento del giovane:
«Ma che cosa vuoi fare nella vita?».
«Voglio studiare amministrazione all’Alberghiero».
«Amministrazione? Ma no, tu devi fare il cuoco».
A diciott’anni il ragazzo aveva aperto il suo primo ristorante, in Calabria, insieme al preside dell’Istituto alberghiero..Nella capitale lavora al Grand Hotel nella stagione dorata degli anni Ottanta e Novanta. Il direttore lo prende in simpatia: «A Francé, sei bravo ma devi imparare l’inglese». Così prende un anno di aspettativa e va a lavorare a Londra, al Dorchester di Mayfair, l’albergo a cinque stelle del sultano del Brunei. «Per me era una dimensione incredibile - racconta - c’erano 120 cuochi». Nel giro di poco, Francesco era passato da «Second Commis», aiutante, a «Sous Chef», vicecuoco.
Imparato l’inglese, torna in Italia e lavora al ristorante della terrazza dell’Eden, in via Ludovisi a Roma. «Fu allora che mi accorsi che la cucina di classe italiana era troppo dipendente da quella francese», ricorda. Il mondo rurale da cui proveniva, dove il pane, la conserva e i salumi si facevano in casa, gli appariva adesso come un modello e non più come un limite. Il richiamo del Nord era potente: andò al Santini di Milano e poi, finalmente, al Santini di Londra. Poi più a Nord, di nuovo sulle rive del Tamigi, dove tutti i posti del mondo si incontravano.
Il giovane «local» di talento diventa «global» conoscendo a Londra Alan Yau, il più celebre ristoratore di Hong Kong, l’uomo che ha portato la cucina cinese a vette stellari. Francesco scopre l’oriente e aiuta Xan ad aprire nuovi ristoranti in Inghilterra, negli Stati Uniti, a Istanbul e a Mumbai. Vive un anno a Bangkok, facendo il cuoco al Falabella, nel Royal Bangkok Sport Center di proprietà della famiglia reale. Non ha il visto di soggiorno, così ogni mese esce dal Paese e va a farsi un giro in Cambogia, Vietnam, Laos, Singapore.
«Quei viaggi - racconta - mi aprirono la mente. Dovevamo finirla noi italiani di vergognarci della pasta e della pizza. Bisognava capire che non erano piatti che potesse fare il primo arrivato». Fu allora che nacque l’idea della ’nduja, il salame piccante calabrese. «I cambogiani - dice - mi offrivano il loro maiale bollito come fosse una prelibatezza, ma noi avevamo di meglio».
Così cominciò a firmare la «Calabrese», la pizza con la ’nduja, per Pizza Express. In breve divenne la più venduta nel mondo dalla catena. «Solo negli ultimi due anni - dice Francesco - Pizza Express ha comprato due milioni di sterline di ’nduja in Calabria». La Calabrese è oggi un must a Dubai, ad Abu Dabhi, a Hong Kong.
«Quest’estate - racconta - a Spilinga, il paese dove è nato il salame piccante, mi hanno dato un premio». Curiosamente, a Spilinga si dice «’ndugia», proprio come lo pronunciano gli inglesi.
«Nessuno al mondo poteva immaginare - dice - che nella cucina italiana ci fosse un salume piccante morbido che si può spalmare». Un ingrediente potente da combinare con perizia. Il suo capolavoro sono le capesante alla ’nduja, le «Charcol Scallops 'Nduja and Salsa Verde», dove il piccante del salame si fonde con l’acidità della salsa e la consistenza del mollusco in un abbraccio voluttuoso.
Francesco Mazzei si esibisce adesso all’Anima a Shoreditch, nella City, uno dei migliori ristoranti italiani di Londra, ma il suo sogno (presto realizzato) è di aprire una trattoria a prezzi popolari dove chiunque può mangiare a prezzi abbordabili la cucina tradizionale (globalizzata) italiana.
Claudio Gallo
(Corrispondente da Londra del quotidiano La Stampa)
giovedì 7 novembre 2013
Calabria, il «Codex Purpureus Rossanensis» in Quirinale il 14 novembre
#Rossano (Cosenza). Il «Codex Purpureus Rossanensis» sarà esposto in #Quirinale, il prossimo 14 novembre, in occasione della prima visita ufficiale di Papa Francesco al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
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Nella foto: alcuni particolari del #CodexPurpureusRossanensis. Si tratta di un manoscritto pergamenaceo, conservato nel Museo Diocesano d'Arte Sacra di Rossano (Cosenza), databile - molto probabilmente - alla seconda metà del V secolo. Un'opera d'inestimabile valore, unica al mondo, che rappresenta il simbolo più eloquente della gloriosa epoca bizantina in Terra di Calabria. Il testo dei vangeli di San Matteo e San Marco è scritto in oro e argento su fondo rosso ed è illustrato da splendide miniature policrome a piena pagina.
Caro Sansonetti, ma perché quel «minuscolo»?
Caro Sansonetti, «ma perché quei caratteri con le iniziali minuscole» nella testata? È una domanda che, assieme a noi, si pongono da tempo molti Calabresi. Oddio!, di primo acchito, sembrerebbe un problema di «lana caprina». E invece no. «La Calabria» - ci scrivono in molti - «merita l’iniziale maiuscola». Che dire? Ci siamo un po’ sbizzarriti a modificare la grafica di testata. Ecco come si presenta oggi «L’Ora della Calabria» e come sarebbe ideale, per molti calabresi, che si presentasse in futuro.
In tutta sincerità: non è meglio la seconda?
Un abbraccio, Vincenzo Pitaro
mercoledì 23 ottobre 2013
Giornali & Riviste
Lo sapevate? «Win Magazine», la rivista leader in Italia nel settore dell#Informatica e della tecnologia, è nata tre lustri addietro in Calabria. La testata delle Edizioni Master S.p.a. (presidente ed amministratore delegato: Massimo Sesti) è stata registrata nel 1998 presso il Tribunale di #Cosenza. Il prestigioso Gruppo editoriale - che nel frattempo ha dato vita a tante altre riviste nazionali di successo - conserva a tutt'oggi la sua sede legale a Rende (CS), in contrada Lecco. Orgoglio di #Calabria.
Cultura ☆ Libri
Grazio Pitaro: «Quei giorni in cui conobbi Padre Pio»
Il prof. Grazio Pitaro, scrittore e devoto che negli Cinquanta ebbe il privilegio di conoscere ed intervistare più volte Padre Pio, racconta in questo saggio i suoi periodici incontri col Frate taumaturgo del Gargano, il religioso che oggi la Chiesa ha proclamato Santo. «È stata un'affascinante avventura umana», dice. «Furono momenti di commozione e di riflessione. E già d'allora il Frate dimostrava di avere un abboccamento con Dio». Un volume ricco di aneddoti interessanti. Disponibile anche in #eBook. (Grazio Pitaro, «Padre Pio, il Santo del Terzo millennio», pp. 98, s.i.p., Edizioni L'altra Calabria). #Cultura #Libri
mercoledì 16 ottobre 2013
lunedì 14 ottobre 2013
Tremila anni di storia nei vini di Calabria
di Vincenzo Pitaro
La Calabria, fin dall’antichità, è terra di vino per antonomasia. Non a caso i greci la chiamavano Enotria1 che, per l’appunto, significa terra del vino.
In epoca greca, infatti, si conoscevano nella regione addirittura oltre cento tipi di vitigni diversi.
Fra i vini, ovviamente, spiccava il famosissimo Cirò - oggi conosciuto in tutto il mondo e definito il più antico vino della Terra - che i greci distribuivano come premio agli atleti vincitori delle Olimpiadi.
Alla storia della Magna Grecia è anche legato il celeberrimo Greco, un vitigno che i greci trapiantarono su queste terre nell’ottavo secolo prima della venuta di Cristo. Il Greco di Bianco si diffuse ben presto anche tra i latini al punto di conquistare fama e gloria. A Roma, imperatori e patrizi ne andavano matti; le donne erano ghiotte di Greco per le sue virtù afrodisiache. «Sei diventata veramente gelida, Bice, e di ghiaccio: che neanche il vin Greco iersera riuscì a scaldarti», scriveva un patrizio pompeiano all’indomani di un banchetto degno di Trimalcione.
Del Cirò e del Greco sono note finanche le citazioni di Virgilio e di Plinio il Vecchio che lodarono questi vini a più riprese.
Tantissime altre annotazioni sui vini calabresi si riscontrano pure nella letteratura di viaggio di illustri visitatori stranieri, dalla fine del Cinquecento in poi. La maggior parte di questi letterati (giornalisti, scrittori, archeologi, scienziati, ecc.) ci ha lasciato testimonianza dei loro viaggi in numerose ed interessanti pubblicazioni. Nella seconda metà dell’Ottocento, ad esempio, Joseph Victor Widmann, critico letterario e romanziere svizzero, nel volume dedicato al suo viaggio in Calabria, intitolato Calabrien, Apulien und Streiferein an den oberitalieschen, scrisse: «In genere in Calabria non si può tener conto della propria dieta. I cibi vengono preparati per bene. Però il vino! Mai durante i miei viaggi ne ho bevuto di migliore. E solo il pensiero della poca garanzia che avevo di farlo arrivare in Svizzera mi distolse dal comprarne un’intera botte. Era un vino rosso che mentre veniva versato brillava di un colore brunastro e che ricordava come gusto un eccellente Bordeaux».
Persino l’archeologo francese, François Lenormant, che nel 1882 compì diversi viaggi di studio in regione, nella sua voluminosa opera sulla Magna Grecia trovò modo di esaltare il vino lametino. «Sambiase, che sino alla fine del XVII secolo non era che un villaggio dipendente da Nicastro», scrisse Lenormant, «deve la sua fortuna al proprio vino eccellente. Un vino che merita di essere conosciuto al di fuori di queste province e che se venisse esportato lontano acquisterebbe una giusta reputazione fin nei nostri Paesi d’Europa».
Agli inizi del Novecento, poi, il letterato inglese Norman Douglas (che visitò la regione nel 1907 e nel 1911) nel suo libro Vecchia Calabria, si disse fiero dei vini calabresi «meritevoli di molte lodi». «Quasi ogni villaggio», scrisse il Douglas, «ha il proprio tipo di vino e ogni famiglia che si rispetti ha un suo metodo particolare per farlo».
A tutt’oggi, uno dei veri punti di forza dell’enologia calabrese è la ricchezza di vitigni autoctoni, nati millenni or sono su queste terre. Essi rappresentano la maggioranza in tutto il territorio regionale. I più presenti sono: il trebbiano, lo zibibbo, la malvasia, il mantonico bianco, il greco bianco e la guarnaccia, per i bianchi; il gaglioppo, il greco nero, il nerello mascalese, il cappuccio, il guardavalle e il sangiovese, per i rossi.
Da queste uve nascono i migliori vini rossi della regione: corposi, ricchi di toni fruttati, che si impongono per eleganza e capacità di invecchiare. Non mancano, naturalmente, i bianchi profumati e fragranti, i rosati equilibrati e brillanti, gli ottimi vini da tavola (che hanno parimenti valori e origini certe per aspirare alla decretazione della Doc) ed i grandi vini dolci e liquorosi.
Oggi in Calabria sono a Denominazione d’Origine Controllata i vini Cirò, il Bivongi, il Donnici, il Greco di Bianco, il Lamezia, il Melissa, il Pollino, il Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, il San Vito di Luzzi, il Savuto, lo Scavigna e il Verbicaro.
A questi si affiancano tanti altri rinomati vini IGT (Indicazione Geografica Tipica).
Da alcuni decenni, peraltro, sono stati messi a dimora nuovi impianti di vitigni non tradizionali: dal Pinot al Cabernet, dallo Chardonnay allo Sauvignon, dal Riesling Italico al Riesling Renano, dal Trainer all’Incrocio Manzoni, al Prosecco, ecc.
Queste uve hanno trovato un habitat ideale, sia per l’ottimo clima che ne migliora la qualità, sia per le capacità e l’abnegazione dei produttori. Un successo che, ovviamente, ha cambiato molte cose. A cominciare dalle cantine. Oggi nella regione, è possibile visitare autentiche «boutiques» del vino che si avvalgono di tecnologie fra le più avanzate e di ottimi professionisti del settore enologico. Negli ultimi tempi, peraltro, si è registrata un’ondata di rinnovamento che ha cambiato radicalmente il modo di fare e pensare il vino. E così alla politica del «produrre tanto e a poco prezzo» si è sostituita quella del «produrre meno e meglio». Ed i risultati non si sono fatti attendere. In questa Terra, benedetta da Dioniso, sono nate una serie di etichette di prestigio che ben si onorano di affiancare quei vini calabresi più nobili e famosi che, dal remotissimo tempo dei Greci fino ad oggi, continuano a rallegrare la tavola del buongustaio.
La Calabria del vino, insomma, ha una storia plurimillenaria, molte tradizioni da difendere e moltissimo ancora da offrire.
Giacomo Tachis, piemontese, uno dei padri del vino italiano di alta qualità, enologo di fama internazionale, ne è più che convinto e vede nel Mezzogiorno d’Italia il futuro della vitienologia internazionale. «Sulle vigne del Sud», dice, «splende il sole, il cielo è quasi sempre azzurro, e le uve maturano. In contrapposizione con le brume ed i grigi mattini del Nord. Bordeaux compreso».
© Copyright by Vincenzo Pitaro
Il cedro di Calabria
Il cedro, pianta miracolosa
L'oro verde nasce in Calabria
di Mario Mantova
Nelle piantagioni della Riviera dei Cedri, in Calabria, agli incipienti tepori di febbraio le gemme tendono a schiudersi per la prima fioritura dal profumo intenso e penetrante; poi seguiranno le diverse fasi della laboriosa coltivazione fino a quando, tra l'autunno e l'inverno, i cedri matureranno in tutta la loro bellezza e sarà possibile procedere alla raccolta.
La Calabria detiene nel mondo il primato di qualità di questo agrume che i Romani chiamavano “pomo di Medea” e la cui pianta, originaria dell'India, pare sia stata introdotta nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo da Alessandro Magno intorno al terzo secolo a.C. In Italia arrivò più tardi, almeno cinquecento anni dopo che la coltura si era diffusa in Grecia e nelle isole dell'Egeo: fece infatti la sua apparizione agli inizi del secondo secolo d.C. nella zona di Napoli e in Sardegna. I Romani - come testimoniano pitture e mosaici rinvenuti a Ercolano e a Pompei - usavano il cedro in cucina aggiungendolo a pezzetti al loro garum (una salsa di pesce crudo in salamoia) o a piccanti polpette di maiale, e con le foglie producevano una sorta di liquore; il legno della pianta era ricercatissimo dagli ebanisti per le sue elegantissime venature che impreziosivano i lavori d'intaglio.
Franco Gallano, che insegna materie letterarie nei licei ed è un attento studioso di modelli alimentari nel bacino del Mediterraneo, in un suo libro sul “Significato religioso, culturale e alimentare del cedro” (Edizioni Lapico) spiega come la Citrus medica si sia diffusa presso le colonie agricole della Magna Grecia ad opera di quegli Ebrei ellenizzati là giunti al seguito della schiatta achea, durante le loro migrazioni. Essi introdussero nel cuore del mondo romano il simbolismo religioso del cedro, come attestano disegni e iscrizioni in greco e in latino presenti nelle catacombe ebraiche della via Nomentana e della via Appia ai margini della città di Roma e raffigurazioni del pomo di cedro (assieme ad altri simboli ebraici quali il ramo di palma, il corno d'ariete e il candelabro a sette braccia) visibili sull'architrave dell'edicola della Sinagoga di Ostia Antica. Secondo la tradizione ebraica fu Dio stesso a indicare a Mosé, durante l'esodo verso la Terra Promessa, il cedro come una delle quattro piante (le altre sono il mirto, il salice e la palma) da usarsi durante la Festa dei Tabernacoli o delle Capanne che ancor oggi gli Ebrei costruiscono sulle loro terrazze, nei cortili, nei giardini e anche sui balconi delle case. Secondo una delle interpretazioni che vengono date alla simbologia delle quattro piante, il cedro rappresenterebbe colui che è saggio e bene operante, la palma colui che possiede saggezza ma non opera di conseguenza, il mirto colui che agisce senza saggezza, il salice colui che ha poca saggezza ed è privo di opere.
Spiega ancora Franco Gallano che il frutto utilizzato in tali cerimonie della tradizione ebraica deve provenire da una talea non innestata e risultare perfettamente "sano", non maculato, di bella forma conica, con apice perfetto e peduncolo accentuato. Da secoli gli Ebrei cercano di procurarsi cedri con tali caratteristiche, senza risparmio di prezzo e di energie: lo hanno fatto anche in periodi e situazioni difficili, sfidando governi ostili, forzando barriere doganali, sopportando inique tassazioni, eludendo - ai tempi - persino l'implacabile e sempre vigile Santa Inquisizione. Fino alla seconda guerra mondiale i mercanti israeliti di cedri si davano appuntamento a Trieste e da lì scendevano in Calabria per scegliere i prodotti migliori; dopo un'attenta selezione, i frutti venivano inviati nelle varie comunità israelitiche del mondo, da Londra a Odessa, da New York ad Amburgo. Oggi i mercanti raggiungono direttamente Santa Maria del Cedro, nell'alto Tirreno cosentino, dove la produzione del cedro ha raggiunto altissimi livelli di qualità. La prima raccolta dei frutti della Citrus medica avviene all'inizio dell'autunno ed è quella che serve ad assicurare i cedri ancor giovani a chi mantiene viva la tradizione ebraica.
Questa raccolta si fa dopo mesi di cure continue e laboriose; in genere le piante non superano i 60 centimetri di altezza e i coltivatori, per inoltrarsi nelle piantagioni, devono lavorare in ginocchio facendo attenzione a non ferirsi a causa delle lunghe spine che ricoprono le piante stesse. La seconda raccolta si fa in novembre, quando i frutti hanno raggiunto proporzioni notevoli. I cedri vengono utilizzati in impieghi diversi, dal settore alimentare a quello terapeutico a quello della fìtocosmesi e della profumeria. L'albero del cedro è piccolo, con rami spinosi, foglie oblunghe; i fiori, profumatissimi specialmente al tramonto, sono bianco-lattei come quelli degli altri agrumi; il frutto ha una scorza che è molto spessa, rugosa e bitorzoluta, di color giallo citrino, verdastra o dorata esternamente e bianca all'interno e che circonda la parte centrale del frutto stesso costituita da polpa tenera, poco succosa, aromatica, meno acida di quella del limone. La scorza viene usata per fare canditi con un procedimento che inizia con la salagione. I cedri vengono messi in botti con aggiunta di acqua di mare e di sale; dopo circa due mesi, durante i quali vengono eseguiti continui controlli, i cedri vengono estratti dalla salamoia e la scorza (divenuta quasi cristallina) viene separata dalla polpa, lavata, fatta bollire e messa nuovamente in acqua; poi, bene asciugata, viene immersa in uno sciroppo di zucchero e glucosio e fatta ancora bollire; la scorza viene quindi lasciata riposare per tre settimane e alla fine è sottoposta a ripetuti lavaggi che gli danno un aspetto cristallino e trasparente. Il cedro candito è usato in pasticceria e per fare estratti, liquori, marmellate, confetture e conserve. La polpa serve a preparare sciroppi, cedrate e bibite varie e se ne può estrarre acido citrico; è usata anche in gelateria. Il cedro ha anche impieghi terapeutici e medicamentosi: se ne possono ottenere infatti succhi, decotti, infusi, tinture, cataplasmi, impacchi buoni per combattere l'acidità gastrica, l'alito cattivo, l'inappetenza, la colite, l'aerofagia, l'asma e la bronchite, il colesterolo alto, l'ipertensione, lo stress e altro ancora. In profumeria e fitocosmesi viene utilizzata l'essenza di cedro ottenuta per spremitura e distillazione della scorza e delle foglie, essenza che viene impiegata nella fabbricazione di profumi, acque di colonia, saponi, creme, maschere di bellezza, dentifrici e colluttori, lozioni e shampoo, deodoranti e antitraspiranti, prodotti per l'igiene intima della donna, per combattere la forfora, per prevenire la caduta dei capelli.
Il cedro è dunque un bene molto prezioso che ci viene dalla natura e che ci offre un ampio ventaglio di applicazioni: non per niente viene chiamato anche "oro verde". Ecco perché - come sostiene Franco Galiano che da anni si batte per la tutela e la valorizzazione del cedro - è auspicabile «una mobilitazione delle energie sociali e istituzionali, affinché in Calabria la coltivazione di questo agrume venga salvaguardata e trovi nuovi spazi di mercato. Nell'ambito delle direttive Cee le leggi del settore andrebbero migliorate, dando luogo a iniziative e progetti di formazione professionale, soprattutto per quanto concerne l'acquisizione di nuove tecnologie culturali e l'introduzione di moderni sistemi di allevamento che rendano più competitivo il prodotto sul mercato».
È meglio del Viagra
Ecco una ricetta per ottenere dal cedro un preparato stimolante ed energetico - una sorta di viagra naturale - che può offrire un valido aiuto nella cura dello stress, della frigidità e dell'impotenza sessuale.
Frullare insieme un cucchiaio di miele, un bicchierino di succo di cedro, un tuorlo d'uovo e un bicchierino di marsala. Provare per credere...
Qualche altro consiglio: la scorza del cedro strofinata sui denti toglie l'ingiallimento dovuto alle sigarette. Il succo di cedro è ottimo per l'igiene delle unghie.
Un bagno in acqua calda arricchita di fiori secchi di cedro agisce sul sistema nervoso, scioglie la tensione, stimola la circolazione. Deodoranti fatti con sacchetti di scorza sottile di cedro servono a profumare la biancheria e a tenere lontane le tarme.