di Vito Teti
Nel complesso panorama politico che si venne a delineare nell’Italia meridionale, a seguito della caduta del fascismo, particolare importanza riveste la «rivolta» di Caulonia del 1945. La situazione socio-economica di questo grosso e popolato centro agricolo della riviera ionica, in provincia di Reggio Calabria, era caratterizzata dalla persistenza di rapporti sociali di tipo feudale; lo sfruttamento esoso, che i contadini subivano ad opera di una classe agraria assenteista e privilegiata, era all’origine di un’accentuata conflittualità tra le classi e di una serie di sollevazioni e ribellioni contadine, fin dal periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
A partire dall’ottobre 1943 a Caulonia, come in quasi tutti gli altri paesi della Calabria, vengono riaperte le sezioni del Partito Socialista, del Partito Comunista e della Camera del lavoro. Alla testa del «movimento», che aveva come obiettivo principale la distribuzione ai contadini delle terre usurpate, che costituivano i tre quarti della superficie del territorio comunale, troviamo una singolare figura di «capo-popolo», Pasquale Cavallaro. Insegnante elementare di estrazione contadina, perseguitato e confinato politico dal regime fascista, iscritto al Partito Comunista dal 1943.
Nel 1944, Cavallaro, grazie alla sua «popolarità» e all’appoggio del Partito presso il prefetto di Reggio Calabria, Priolo, riesce ad ottenere la nomina a sindaco del Comune. La reazione degli agrari non tarda ad arrivare: in breve si assiste ad una serie di gravi provocazioni, che culminano nell’arresto di Ercole Cavallaro, figlio di Pasquale, accusato di furto ai danni di un notabile, nel corso di una perquisizione per sottrarre agli agrari armi e generi alimentari nascosti. L’arresto ha come effetto una mobilitazione popolare immediata.
La notte del 5 marzo 1945 gruppi d’insorti presidiano armati Caulonia; nel giro di poche ore la rivolta si estende ai comuni vicini coinvolgendo migliaia di persone. Occasionali furono il motivo e la data della rivolta, ma essa era stata preparata da anni di mobilitazione e propaganda politica. La rivolta vera e propria dura cinque giorni, dal 5 al 9 marzo, nel corso dei quali i rivoltosi proclamano la «repubblica» ed elaborano proprie strutture difensive e di controllo (esercito popolare) e istituiscono un tribunale del popolo.
Nelle autorità si diffonde il timore che la rivolta possa estendersi ai centri vicini: viene liberato Ercole Cavallaro, magistratura e carabinieri intervengono presso gli esponenti provinciali e regionali del Partito Comunista, ingenti forze di polizia circondano Caulonia. L’uccisione, da parte del bracciante Ilario Bava, del parroco Gennaro Amato (Cavallaro verrà accusato di esserne il mandante) e alcune altre provocazioni accelerano la fine della sommossa e il disarmo dei braccianti e dei contadini. Il 15 aprile Cavallaro si dimette da sindaco; al suo posto viene nominato Eugenio Musolino, segretario del Partito Comunista della provincia di Reggio Calabria, e qualche tempo dopo l’agrario Giovan Battista Lombardi. Nonostante le promesse e le mediazioni del Pci, la repressione fu durissima. Trecentocinquantasei persone, tutti contadini e braccianti eccetto Cavallaro e i suoi due figli, dovettero rispondere dinnanzi al tribunale di Locri dell’imputazione di costituzione di bande armate, di estorsione, di violenza a privati, di usurpazione di pubblico impiego, di omicidio, ecc. Diecine di contadini furono percossi a sangue; circa ottanta persone rimarranno a lungo nelle infermerie in seguito alle violenze ricevute. Due lavoratori morirono per le torture; altri due morirono ancora giovani in seguito a colpi ricevuti.
La causa del fallimento della rivolta è da ricercarsi, come osserva Amelia Paparazzo, «nell’isolamento in cui l’esperimento di Caulonia venne a trovarsi» e nel fatto che «i quadri dirigenti provinciali del Partito non appoggiano la rivolta, ma intervengono direttamente per provocarne la fine» (1).
Cavallaro accusò successivamente, e a più riprese, di tradimento i dirigenti provinciali del Pci e di titubanza i dirigenti nazionali. La verità è che, quando scoppiò la rivolta di Caulonia (ad insaputa dei dirigenti provinciali e di quelli nazionali), i moti di piazza e l’insurrezione armata non rientravano ormai nella linea e nella strategia politica del Partito. Proprio in riferimento ai fatti di Caulonia, Palmiro Togliatti, nel discorso di chiusura al Consiglio nazionale del Pci, tenutosi a Roma l’8 aprile 1945, sottolineava che «certi compagni quando si chiedevano che cosa il Partito dovesse fare per frenare l’avanzata delle forze reazionarie non riuscivano a capire che la sola via possibile era quella di un’azione ampia, legale e disciplinata» e metteva in guardia contro le «volgari provocazioni» di quanti «fuori dal nostro partito o ai margini di esso [...] con scopo ben determinato ripetono ad ogni passo che sarebbe venuta l’ora di menar le mani».
Il fallimento della rivolta di Caulonia rappresenta, comunque, non solo una grave sconfitta politica del nascente movimento contadino e l’insuccesso dei rarissimi tentativi delle classi subalterne meridionali di creazione autonoma di proprie forme di controllo, di difesa e di egemonia politica.
A tale sconfitta è da aggiungere anche una non meno grave sconfitta culturale e ideologica. Prendendo a pretesto alcuni gravi fatti (2) che si verificarono nel corso della rivolta [...] le forze politiche reazionarie e moderate ebbero buon gioco a «criminalizzare», per dirla con una nuova e già consumata espressione, un momento fondamentale, per quanto contraddittorio e confuso, delle lotte contadine in Calabria degli anni quaranta e cinquanta. L’insurrezione armata di migliaia di contadini e braccianti, che lottavano per la terra e per l’abbattimento definitivo dei rapporti feudali nelle campagne, venne, prima, brutalmente repressa e, successivamente, esorcizzata come atto criminale di pochi «mafiosi» e delinquenti.[...]
Il «mondo nuovo» che Cavallaro avrebbe voluto costruire con la rivolta sembra avere le caratteristiche dell’«utopia contadina». E certamente, richiami millenaristici, attese e credenze messianiche, vagheggiamenti di una «Giustizia» assoluta, mitica e astorica, aspirazioni a una mitica età dell’oro e del paese della Cuccagna, tipici delle civiltà, costituiscono in parte il retroterra dell’ideologia di Cavallaro. «Un gesto grande si è osato: un gesto che... ha le dimensioni delle latitudini e il volto di un’umanità sofferente, che spezza le catene millenarie e aspira l’aere ribelle e giocondo di un’alba nuova di liberazione» (3). Un gesto che «ha voluto solamente dir basta alla nequizia dei secoli, e mostrare i denti decisi al ringhio sinistro e tenebroso del passato, nella giustizia e per la giustizia, ma di quella giustizia che contempla e concilia i diritti e i doveri di tutti, senza distinzione di razza, di grado, o paese» (4). «Il mio mondo, il mondo che io vagheggiavo» [...] doveva essere pieno di bellezza, di bontà, di vita civile per tutti, di liberazione da ogni oppressione, da ogni sfruttamento, da ogni negazione di quello che è il buon senso, di quello che è la logica umana, di quello che è la verità di tutti, e soprattutto vagheggiavo una giustizia corrispondente a tutto questo» (5). «...nel mio animo non c’era che una veduta di sole, non di tenebre, e di giustizia per tutti. Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti» (6).
Nella tradizionale visione del mondo delle classi subalterne calabresi la Giustizia e l’Ingiustizia non sono prodotti di avvenimenti e processi storici, ma hanno origini antichissime, divine, mitiche. In Cavallaro è divina «la soddisfazione di non essere mai stato pescato in fallo» (7). L’esigenza di un «mondo nuovo» e l’aspirazione ad esso sono accompagnate dalla mitizzazione della propria realtà, dall’esaltazione della propria esperienza individuale, dalla necessità psicologica e storica di porre il proprio «io» e la propria «cultura» al centro del mondo e dell’Universo. Nell’analisi politica di Cavallaro, Caulonia assume importanza fondamentale anche in relazione alle vicende della Germania e della Russia. A Caulonia sarebbe per prima scoppiata la rivoluzione socialista; nel resto d’Italia non si aspettava che il via di Cavallaro. «...tutti speravano che io dessi il via e nella stessa Roma si diceva - questo mi fu confermato da alcuni romani - “Noi aspettavamo il tuo via”. [...] Dai compagni, arrivavano da ogni luogo, c’erano fasci di lettere e in tutti la stessa cosa: “Siamo in attesa del tuo via” [...]. Si pensava che da Caulonia sarebbe partita la cosiddetta “marcia su Roma”. Proletaria, non quella fascista, e che lungo il cammino si sarebbero accodati tutti gli altri»8.
Vito Teti
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1) A. Paparazzo, Lotte contadine e comportamenti culturali delle classi subalterne. Il caso della rivolta di Caulonia (1945), su «Classe», giugno 1975, pp. 93-106. (Il saggio è stato ripubblicato nel libro di M. Alcaro e A. Paparazzo, Lotte contadine in Calabria (1943-1950), Lerici, 1976.
2) L’uccisione del parroco don Gennaro Amato (ad opera non di rivoltosi ma di ‘ndranghetisti che avevano interesse a stroncare sul nascere la sommossa), ecc.
3) Dall’intervista di Sharo Gambino a Pasquale Cavallaro, apparsa a puntate su Calabria Oggi nei numeri che vanno dal 4 novembre al 30 dicembre 1976. Tale intervista, assieme al dibattito ad essa seguito sulle pagine del periodico, è stata successivamente pubblicata nel volume La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? di cui sono autori Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Enzo Misefari ed Eugenio Musolino.
4) Ibid., pag. 114.
5) Ibid., pag. 13.
6) Ibid., pag. 24.
7) Ibid., pag. 12.
8) Ibid., pp. 17-18.
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