Visualizzazioni totali

martedì 4 marzo 2014

Giangurgolo e la Calabria nella Commedia dell'Arte

di Vincenzo Pìtaro

I dizionari enciclopedici (tutti: dallo Zanichelli alla Treccani) stranamente lo ignorano. Eppure la Calabria ha nella commedia dell'arte la sua gioiosa e simpatica maschera: è Giangùrgolo.
Il nome di per sé è già tutto un programma. Etimologicamente sembra voglia dire Gianni-gola-piena, o Gianni-ingordo. Insomma è un capitano d'origine spagnola, che alla bisogna sa fare i più diversi mestieri, in perenne dissidio con la fame e l'ingordigia, sempre insaziabile di cibo. In particolare di maccheroni che sono la vivanda per cui stravede, specie quando sono ben fumanti. Al tempo stesso è un fanfarone di tre cotte, ne spara di tutti i colori; è un guascone che veste alla spagnola ed ama forbire il suo dialetto calabrese con intercalari spagnoleschi.
Giangùrgolo, come tutti gli uomini fragili, si studia di dare di sé un'immagine piuttosto fittizia che reale. Fa di tutto per apparire temerario, truculento e pieno di sé, al punto che è sempre corrivo a coprire di improperi e di minacce chiunque non indulga a prenderlo sul serio. È pronto, a parole, a dare bastonate sulle spalle, a rompere teste, a fracassare ossa ed a ridurre uomini interi in frattaglie. Salvo poi a darsela a gambe se qualcuno fa le mostre di prenderlo in parola e di abbozzare una reazione. Perché, sì, Giangùrgolo, è soprattutto pusillanime, che riesce e vuole infierire sui deboli e indifesi, e fuggire a gambe levate, o al più ingraziarseli con le sue svenevolezze, i forti ed i potenti.
Il nostro è anche un dongiovanni, o per meglio dire, ama provarsi nell'arte di sedurre le «giovin donzelle». E qui, non senza cadere nel grottesco, le sue labbra, che prima sprizzavano una profluvio di contumelie e minacce, si trasformano in fonte di sdolcinate parole d'amore per le damigelle concupite (che sono sempre più d'una, figuriamoci!). Ma non viene mai corrisposto, perché non preso sul serio; anzi quasi sempre viene canzonato dalle stesse donnette e finisce col ritirarsi scornato e con la coda fra le gambe.
Questa maschera tipica calabrese è vestita con marsina e pantaloni gialli rigati di rosso, porta un corsetto rosso, un naso sesquipedale eternamente paonazzo ed un lungo spadone che tiene legato ad una larga bandoliera, ma che non usa mai in quanto che la sua... ferocia si esprime solo a parole, senza passare mai a vie di fatto.
Porta un copricapo a cono, ornato da una lunga piuma di pavone (che la dice lunga sul carattere del personaggio) molto in voga nelle Calabrie del '700. Le origini del Giangùrgolo vengono fatte risalire alla metà del XVI secolo: calcò le scene dei teatri italiani fino a tutto il XVII; un personaggio omonimo e calabrese comparve in quel periodo sui teatri napoletani e persino veneziani.
Il luogo d'origine è a tutt'oggi controverso. C'è chi vuole che questa maschera sia sorta in Sicilia e solo in un secondo momento sia approdata in Calabria. Vale a dire dopo il 1713, allorquando, con la pace di Utrecht, in Sicilia agli Spagnoli succedette il duca Vittorio Amedeo II di Savoia.
C'è invece chi propende per una primogenitura napoletana. Di certo v'è soltanto che la maschera di Giangùrgolo è una amena parodia di quei signorotti spagnoli boriosi e tronfi.
© Vincenzo Pitaro

-
(ndr) A beneficio degli studiosi che intendessero effettuare eventuali ricerche sulla maschera di Giangurgolo, presso le emeroteche o le biblioteche, sono da segnalare le seguenti pubblicazioni del giornalista Vincenzo Pitaro:
1) Vincenzo Pitaro: «È Giangurgolo la maschera calabrese» in «La Provincia di Catanzaro», nn. 5-6 1986 e, stesso anno, anche in «Calabria Letteraria» e «Parallelo 38»
2) Vincenzo Pitaro: «Giangurgolo, un “capitano” calabrese, maschera della commedia dell’arte», Gazzetta del Sud, Cultura, Paginatré, di martedì 16 Febbraio 1999
3) Vincenzo Pitaro: «Ecco Giangurgolo, maschera del ‘700», Gazzetta del Sud, pag. Cultura, Domenica 3 Febbraio 2008
4) Vincenzo Pitaro: «La Calabria nella commedia dell’arte» in Antologia di Letteratura Calabrese, 1995 #VincenzoPitaro

Antonio Pitaro, il medico di fiducia dei Bonaparte

Nella Francia dell’Ottocento, diede lustro alla Calabria e all’Italia intera. Da noi, invece, è pressoché sconosciuto. «Ma com’è possibile», si chiedono alla Sorbona di Parigi con non poco stupore «che l’Italia non abbia ancora sentito il dovere di valorizzare e far conoscere, quantomeno agli stessi conterranei, un personaggio come Antonio Pitaro?».
Eppure, Antoine Pitarò (come lo chiamano i francesi) è stato un personaggio di notevole rilievo a livello europeo che avrebbe dovuto costituire un vanto enorme per l’intera nazione.
Scienziato, accademico, docente alla Sorbona, giacobino, massone (risulta essere iscritto col grado di maestro alla Loggia «Les élèves de Minerve»), amico di Giuseppe Mazzini e medico personale della famiglia di Napoleone Bonaparte, Antonio Pitaro finanche in Calabria è finito per essere dimenticato, se non addirittura ignorato.
A Borgia (CZ), dove nacque nel 1767, gli è stata intitolata una via e un suo busto marmoreo campeggia nella villa comunale. Per il resto, niente di niente. Mai un convegno, mai una manifestazione celebrativa.
Al contrario, la città di Parigi lo ricorda con un monumento eretto in una villa cittadina ed una celebrazione che si tiene ogni anno ai primi di giugno per iniziativa del Grande Oriente di Francia. Ma quel che più contano, sono le innumerevoli citazioni nelle prestigiose enciclopedie francesi, che lo menzionano sia come protagonista della Repubblica Partenopea, che come scienziato, poeta, ecc.
Si occupò anche di fisica e di chimica. Nel «Monitore Napoletano» si parla, nel 1799, in termini elogiativi del contributo che Pitaro diede alla «Repubblica», definendolo una «validissimo chimico», inventore di una portentosa bomba incendiaria che, riprodotta in tantissimi esemplari, venne data in dotazione all’ammiraglio Caracciolo. Grazie a quell’ordigno, che scagliato da lunghe distanze mandava in frantumi le navi nemiche, i patrioti repubblicani tennero lungamente testa all’incessante cannoneggiamento della flotta inglese. Nonostante gli sforzi dei repubblicani, Napoli però cedette e Pitaro uscì dal Regno per cercare esilio in Francia. Non si sa precisamente in quali condizioni Antonio Pitaro partì da Napoli, ma egli risulta essere a Lione già nell’ottobre del 1799, come riporta una vecchia edizione dell’enciclopedia francese Larousse.
Nella città di Parigi, poi, si dedicò interamente ai suoi studi prediletti, conquistando nel contempo una meritata reputazione.
Dopo aver frequentato assiduamente la famiglia di Napoleone Bonaparte, per essere stato il medico personale della madre di quest’ultimo, Maria Letizia Ramolino, prestò servizio come archiatra a corte, facendosi ammirare dalla nobiltà e dall’intellighenzia parigine. Infine, gli fu conferita una cattedra presso la facoltà di scienze della prestigiosa Università della Sorbona. Nella capitale francese, egli ebbe modo di conoscere un altro proscritto come lui, l’ancor giovane Giuseppe Mazzini, nel momento in cui questi stava dirigendosi alla volta di Lione.
Dopo aver abitato in un primo momento in Rue Montblanc n. 24 di Parigi, si trasferì in Rue Henite Ville n. 2, dove si spense il 28 luglio del 1832, nel mentre la sua celebrità aveva valicato i confini d’Europa.
Vincenzo Pitaro
Gazzetta del Sud, pag. Cultura, Giovedì 4 Ottobre 2007
Archivio: www.gazzettadelsud.it

Antonio Pitaro

lunedì 3 marzo 2014

La "Repubblica rossa" di Caulonia

di Vito Teti

Nel complesso panorama politico che si venne a delineare nell’Italia meridionale, a seguito della caduta del fascismo, particolare importanza riveste la «rivolta» di Caulonia del 1945. La situazione socio-economica di questo grosso e popolato centro agricolo della riviera ionica, in provincia di Reggio Calabria, era caratterizzata dalla persistenza di rapporti sociali di tipo feudale; lo sfruttamento esoso, che i contadini subivano ad opera di una classe agraria assenteista e privilegiata, era all’origine di un’accentuata conflittualità tra le classi e di una serie di sollevazioni e ribellioni contadine, fin dal periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale.
A partire dall’ottobre 1943 a Caulonia, come in quasi tutti gli altri paesi della Calabria, vengono riaperte le sezioni del Partito Socialista, del Partito Comunista e della Camera del lavoro. Alla testa del «movimento», che aveva come obiettivo principale la distribuzione ai contadini delle terre usurpate, che costituivano i tre quarti della superficie del territorio comunale, troviamo una singolare figura di «capo-popolo», Pasquale Cavallaro. Insegnante elementare di estrazione contadina, perseguitato e confinato politico dal regime fascista, iscritto al Partito Comunista dal 1943.
Nel 1944, Cavallaro, grazie alla sua «popolarità» e all’appoggio del Partito presso il prefetto di Reggio Calabria, Priolo, riesce ad ottenere la nomina a sindaco del Comune. La reazione degli agrari non tarda ad arrivare: in breve si assiste ad una serie di gravi provocazioni, che culminano nell’arresto di Ercole Cavallaro, figlio di Pasquale, accusato di furto ai danni di un notabile, nel corso di una perquisizione per sottrarre agli agrari armi e generi alimentari nascosti. L’arresto ha come effetto una mobilitazione popolare immediata.
La notte del 5 marzo 1945 gruppi d’insorti presidiano armati Caulonia; nel giro di poche ore la rivolta si estende ai comuni vicini coinvolgendo migliaia di persone. Occasionali furono il motivo e la data della rivolta, ma essa era stata preparata da anni di mobilitazione e propaganda politica. La rivolta vera e propria dura cinque giorni, dal 5 al 9 marzo, nel corso dei quali i rivoltosi proclamano la «repubblica» ed elaborano proprie strutture difensive e di controllo (esercito popolare) e istituiscono un tribunale del popolo.
Nelle autorità si diffonde il timore che la rivolta possa estendersi ai centri vicini: viene liberato Ercole Cavallaro, magistratura e carabinieri intervengono presso gli esponenti provinciali e regionali del Partito Comunista, ingenti forze di polizia circondano Caulonia. L’uccisione, da parte del bracciante Ilario Bava, del parroco Gennaro Amato (Cavallaro verrà accusato di esserne il mandante) e alcune altre provocazioni accelerano la fine della sommossa e il disarmo dei braccianti e dei contadini. Il 15 aprile Cavallaro si dimette da sindaco; al suo posto viene nominato Eugenio Musolino, segretario del Partito Comunista della provincia di Reggio Calabria, e qualche tempo dopo l’agrario Giovan Battista Lombardi. Nonostante le promesse e le mediazioni del Pci, la repressione fu durissima. Trecentocinquantasei persone, tutti contadini e braccianti eccetto Cavallaro e i suoi due figli, dovettero rispondere dinnanzi al tribunale di Locri dell’imputazione di costituzione di bande armate, di estorsione, di violenza a privati, di usurpazione di pubblico impiego, di omicidio, ecc. Diecine di contadini furono percossi a sangue; circa ottanta persone rimarranno a lungo nelle infermerie in seguito alle violenze ricevute. Due lavoratori morirono per le torture; altri due morirono ancora giovani in seguito a colpi ricevuti.
La causa del fallimento della rivolta è da ricercarsi, come osserva Amelia Paparazzo, «nell’isolamento in cui l’esperimento di Caulonia venne a trovarsi» e nel fatto che «i quadri dirigenti provinciali del Partito non appoggiano la rivolta, ma intervengono direttamente per provocarne la fine» (1).
Cavallaro accusò successivamente, e a più riprese, di tradimento i dirigenti provinciali del Pci e di titubanza i dirigenti nazionali. La verità è che, quando scoppiò la rivolta di Caulonia (ad insaputa dei dirigenti provinciali e di quelli nazionali), i moti di piazza e l’insurrezione armata non rientravano ormai nella linea e nella strategia politica del Partito. Proprio in riferimento ai fatti di Caulonia, Palmiro Togliatti, nel discorso di chiusura al Consiglio nazionale del Pci, tenutosi a Roma l’8 aprile 1945, sottolineava che «certi compagni quando si chiedevano che cosa il Partito dovesse fare per frenare l’avanzata delle forze reazionarie non riuscivano a capire che la sola via possibile era quella di un’azione ampia, legale e disciplinata» e metteva in guardia contro le «volgari provocazioni» di quanti «fuori dal nostro partito o ai margini di esso [...] con scopo ben determinato ripetono ad ogni passo che sarebbe venuta l’ora di menar le mani».
Il fallimento della rivolta di Caulonia rappresenta, comunque, non solo una grave sconfitta politica del nascente movimento contadino e l’insuccesso dei rarissimi tentativi delle classi subalterne meridionali di creazione autonoma di proprie forme di controllo, di difesa e di egemonia politica.
A tale sconfitta è da aggiungere anche una non meno grave sconfitta culturale e ideologica. Prendendo a pretesto alcuni gravi fatti (2) che si verificarono nel corso della rivolta [...] le forze politiche reazionarie e moderate ebbero buon gioco a «criminalizzare», per dirla con una nuova e già consumata espressione, un momento fondamentale, per quanto contraddittorio e confuso, delle lotte contadine in Calabria degli anni quaranta e cinquanta. L’insurrezione armata di migliaia di contadini e braccianti, che lottavano per la terra e per l’abbattimento definitivo dei rapporti feudali nelle campagne, venne, prima, brutalmente repressa e, successivamente, esorcizzata come atto criminale di pochi «mafiosi» e delinquenti.[...]
Il «mondo nuovo» che Cavallaro avrebbe voluto costruire con la rivolta sembra avere le caratteristiche dell’«utopia contadina». E certamente, richiami millenaristici, attese e credenze messianiche, vagheggiamenti di una «Giustizia» assoluta, mitica e astorica, aspirazioni a una mitica età dell’oro e del paese della Cuccagna, tipici delle civiltà, costituiscono in parte il retroterra dell’ideologia di Cavallaro. «Un gesto grande si è osato: un gesto che... ha le dimensioni delle latitudini e il volto di un’umanità sofferente, che spezza le catene millenarie e aspira l’aere ribelle e giocondo di un’alba nuova di liberazione» (3). Un gesto che «ha voluto solamente dir basta alla nequizia dei secoli, e mostrare i denti decisi al ringhio sinistro e tenebroso del passato, nella giustizia e per la giustizia, ma di quella giustizia che contempla e concilia i diritti e i doveri di tutti, senza distinzione di razza, di grado, o paese» (4). «Il mio mondo, il mondo che io vagheggiavo» [...] doveva essere pieno di bellezza, di bontà, di vita civile per tutti, di liberazione da ogni oppressione, da ogni sfruttamento, da ogni negazione di quello che è il buon senso, di quello che è la logica umana, di quello che è la verità di tutti, e soprattutto vagheggiavo una giustizia corrispondente a tutto questo» (5). «...nel mio animo non c’era che una veduta di sole, non di tenebre, e di giustizia per tutti. Io volevo, questo in modo assoluto, farla finita con le disparità, con le angherie, il servilismo verso questo o quel signorotto, verso questo o quel prevalente messere; io volevo che tutti si avesse una dignità umana degna di essere ammirata e degna di rispetto da parte di tutti» (6).
Nella tradizionale visione del mondo delle classi subalterne calabresi la Giustizia e l’Ingiustizia non sono prodotti di avvenimenti e processi storici, ma hanno origini antichissime, divine, mitiche. In Cavallaro è divina «la soddisfazione di non essere mai stato pescato in fallo» (7). L’esigenza di un «mondo nuovo» e l’aspirazione ad esso sono accompagnate dalla mitizzazione della propria realtà, dall’esaltazione della propria esperienza individuale, dalla necessità psicologica e storica di porre il proprio «io» e la propria «cultura» al centro del mondo e dell’Universo. Nell’analisi politica di Cavallaro, Caulonia assume importanza fondamentale anche in relazione alle vicende della Germania e della Russia. A Caulonia sarebbe per prima scoppiata la rivoluzione socialista; nel resto d’Italia non si aspettava che il via di Cavallaro. «...tutti speravano che io dessi il via e nella stessa Roma si diceva - questo mi fu confermato da alcuni romani - “Noi aspettavamo il tuo via”. [...] Dai compagni, arrivavano da ogni luogo, c’erano fasci di lettere e in tutti la stessa cosa: “Siamo in attesa del tuo via” [...]. Si pensava che da Caulonia sarebbe partita la cosiddetta “marcia su Roma”. Proletaria, non quella fascista, e che lungo il cammino si sarebbero accodati tutti gli altri»8.
Vito Teti
-
Google.com/+LaltraCalabria
Dir. Resp:: Vincenzo Pitaro
______
1) A. Paparazzo, Lotte contadine e comportamenti culturali delle classi subalterne. Il caso della rivolta di Caulonia (1945), su «Classe», giugno 1975, pp. 93-106. (Il saggio è stato ripubblicato nel libro di M. Alcaro e A. Paparazzo, Lotte contadine in Calabria (1943-1950), Lerici, 1976.
2) L’uccisione del parroco don Gennaro Amato (ad opera non di rivoltosi ma di ‘ndranghetisti che avevano interesse a stroncare sul nascere la sommossa), ecc.
3) Dall’intervista di Sharo Gambino a Pasquale Cavallaro, apparsa a puntate su Calabria Oggi nei numeri che vanno dal 4 novembre al 30 dicembre 1976. Tale intervista, assieme al dibattito ad essa seguito sulle pagine del periodico, è stata successivamente pubblicata nel volume La Repubblica Rossa di Caulonia. Una rivoluzione tradita? di cui sono autori Pasquino Crupi, Sharo Gambino, Enzo Misefari ed Eugenio Musolino.
4) Ibid., pag. 114.
5) Ibid., pag. 13.
6) Ibid., pag. 24.
7) Ibid., pag. 12.
8) Ibid., pp. 17-18.

Libri

Libri

Rassegna Stampa

Rassegna Stampa

Rassegna Stampa