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sabato 10 maggio 2014

Storia. Catanzaro e provincia, una fucina d'ingegni

di Aldo A. Mola

Tra le città italiane, Catanzaro spicca per la memoria che ha conservato e conserva dei suoi maggiori esponenti culturali. È la prova di orgoglio di una terra che si affermò negli studi molto prima di ottenere una sede universitaria. I suoi licei e istituti superiori, sin dal Settecento, proprio perché così lontani da Napoli, capitale intellettuale del Regno, o da Palermo, sede dell'antica gloriosa Università, già contavano su uomini di straordinaria erudizione, la cui intensità di pensiero era tanto più grande quanto più erano costretti a esercitarla in un circuito geograficamente ristretto.
Anche seminari, monasteri e curie diocesane si trasformavano in fucine d'ingegni, spesso destinati ad affermarsi ai ranghi più elevati della Chiesa.
Proprio da quell'humus di profonda cultura, negli stessi anni in cui il sacerdote Antonio Greco veniva eletto primo deputato di Catanzaro alla Camera del Regno, la nobile città calabrese espresse un filosofo che sembrò rinverdire la grande tradizione del cosentino Bernardino Telesio e di Tommaso Campanella. Ci riferiamo al filosofo Francesco Fiorentino, al quale sono dedicate una via e la grande piazza non lontana dall'ombrosa villa Comunale, quasi un salotto all'aperto.
Nato a Sambiase (Lamezia Terme, CZ) nel 1834, Fiorentino si formò alla scuola del celebre Pasquale Galluppi e del francese Victor Cousin, che adattò il pensiero di Hegel, campione dell'idealismo tedesco, alla tradizione filosofica francese,  meno astratta e più attenta ai problemi della storia e della società politica. Profondo cultore dei classici, ma anche dei contemporanei che conosceva nelle lingue originali, Francesco Fiorentino si entusiasmò da giovane per Vincenzo Gioberti, il teologo torinese che conciliava tradizione cattolica e spiriti liberali, sia sul piano teorico-filosofico sia su quello pratico, tanto da essere mandato in esilio perché sospettato di cospirazione contro l'assolutismo. Fiorentino intraprese anche studi sistematici del pensiero medioevale, con particolare attenzione per i mistici, a cominciare da San Bonaventura, maggiore esponente della tradizione filosofica francescana. Ad attrarre Fiorentino su sponde diverse fu la lotta per l'unificazione nazionale, che lo spinse a riflettere sugli ostacoli che la frenavano.
Come il conterraneo Francesco De Luca e molti altri democratici meridionali, egli si gettò allora a esaltare la figura di Giordano Bruno, arso vivo come eretico nel 1600, in realtà perché considerato pericoloso per il potere temporale dei papi. Balzando da un secolo all'altro negli studi, Fiorentino passò poi dai pensatori greci come Platone e Aristotele – ai quali dedicò un saggio nel 1864 – ai grandi filosofi tedeschi di fine Settecento, a cominciare da Kant, ch'egli fece conoscere in Italia, traducendone alcune opere. Nel 1880, Francesco Fiorentino pubblicò un manuale, «Elementi di filosofia», presto adottato nella maggior parte dei licei e delle università del regno.
Trent'anni dopo, e benché egli fosse morto da quasi un quarto di secolo (si spense infatti a Napoli nel 1884), quella stessa opera venne ripubblicata da Giovanni Gentile, che ne fece a lungo un vero e proprio classico per generazioni di studiosi.
Francesco Fiorentino si occupò di filosofi dei secoli più diversi, ognuno dei quali presupponeva approfondimenti che da solo egli non potè portare al limite della perfezione, tanto da essere giudicato dispersivo, se non proprio disordinato.
Egli però non voleva affatto essere lo specialista di un periodo o di un filosofo piuttosto che di altri. Sapeva che per l'Italia, dopo l'Unità, il vero problema era di riprendere contatto con il pensiero universale, senza censure e senza limitazioni. Non si trattava di formare un piccolo nucleo di addetti ai lavori, un cenacolo di specialisti: era urgente voltare pagina in generale, facendo capire ai giovani quanto fosse vasto il patrimonio intellettuale accumulato nei secoli, far percepire che, al di là degli steccati tradizionali, v'erano anche le filosofie e le religioni extraeuropee, la sapienza presocratica, le «civiltà orientali».
Ancora nel 1924 - quarant'anni dopo la morte del suo autore - il «Manuale di storia della filosofia ad uso dei licei», di Francesco Fiorentino, adattato nel 1911 dalla figlia Luisa, venne rimesso a nuovo da Armando Carlini e, in tale veste, rimase in uso sin dopo la seconda guerra mondiale. Insomma, il filosofo catanzarese non fu un genio originale, non ideò alcun sistema personale e non pretese di creare nulla di veramente nuovo. Tuttavia egli ebbe un merito anche maggiore: per quasi cento anni offrì ai giovani un quadro sintetico, chiaro, equilibrato e onesto dei diversi pensatori o sistemi susseguitisi nel tempo.
Da questo punto di vista, Fiorentino non fu troppo diverso da uno dei politici di maggiore spicco del Catanzarese, l'avvocato Bruno Chimirri (Serra San Bruno 1842 - Amato 1917), che si affermò quale economista e dedicò le sue energie a grandi opere di bonifica non solo nel Mezzogiorno ma anche nell'Agro Pontino. Asceso a ministro dell'Agricoltura con Giovanni Giolitti, anche Chimirri non inseguì l'affermazione di progetti personali, di sogni individuali, puntò a mettere a frutto le cognizioni accumulate in decenni di buona amministrazione per «portare a casa» gli accordi più vantaggiosi, soprattutto con la Germania e l'Austria che taluni suoi contemporanei consideravano «nemico storico» dell'Italia in seguito alle guerre risorgimentali.
Con severo senso dei bisogni più urgenti del Paese, Chimirri si premurò di combattere la povertà e spianare la via al benessere. In questa linea nel 1906 fu lui a varare la «legge per la Calabria», che fu, con quella per la Basilicata, voluta dallo stesso presidente del Consiglio, il bresciano Giuseppe Zanardelli, il primo provvedimento organico dello Stato a favore di una regione del Mezzogiorno.
Aldo A. Mola

www.laltracalabria.it

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